Dalla lotta al capitalismo ai dilemmi morali: un’analisi approfondita di Squid Game, la serie sudcoreana che ha conquistato il mondo
Squid Game, la serie televisiva sudcoreana, scritta e diretta da Hwang Dong-hyuk, torna a far sentire la sua voce dopo l’uscita della seconda stagione il 26 Dicembre 2024. Ha avuto un successo strepitoso, battendo il record di visualizzazioni di Netflix, tanto da essere descritta ormai come “un fenomeno di cultura pop”. Una storia spietata fatta di scenari distopici, all’apparenza giocosi che trapelano tuttavia forme di violenza gratuita, frutto di un disagio economico e sociale.
L’autore dà un chiaro avvertimento: chi accetta le regole del gioco:
«dovrà lasciare dietro di sé una sequela di cadaveri e una scia di sangue. Molti esseri umani moriranno. Saranno per lo più vittime innocenti coinvolte in situazioni bizzarre».
L’enorme successo della serie ha scatenato un dibattito acceso tra l’opinione pubblica che spesso ne denuncia il contenuto “altamente violento” chiedendo la rimozione dalla piattaforma.
Squid Game: il gioco del Calamaro
Squid Game letteralmente significa “il gioco del calamaro”, un gioco per bambini popolare in Corea, che nella serie diviene un gioco per la sopravvivenza. Il protagonista, Seong Gi-hun, un uomo divorziato e sommerso dai debiti, viene avvicinato da un misterioso uomo d’affari che gli propone di partecipare a una serie di vecchi giochi per bambini in cambio della promessa di una solida vincita in denaro. L’uomo, spinto dal suo profondo bisogno e dall’ineluttabilità della condizione sociale, accetta di partecipare.
Rinchiuso in un luogo sconosciuto insieme ad altre 456 persone con gli stessi problemi, scopre un ambiente fatto di violenza e sorveglianza. I giocatori non avranno alcun accesso al mondo esterno o via di fuga. Potranno abbandonare il gioco solo se la maggioranza di loro è d’accordo nel farlo; in quel caso, tuttavia, non sarà dato loro alcun premio in denaro.

La competizione si rivela presto una perversa macchina di tortura e di morte, al fine di divertire dei cinici e annoiati multimiliardari. Le sei sfide che dovranno affrontare richiamano tutti giochi popolari per bambini, come “un due tre stella”, ma in versione macabra: chi perde viene brutalmente eliminato. Solo chi arriverà al termine delle sei gare da vincitore potrà andarsene con il ricchissimo bottino: un montepremi di 45,6 miliardi di won (circa 33 milioni di euro).
La possibilità di vincita per ogni giocatore è dunque minima,dell’1%. L’intera trama narrativa si sviluppa intrecciando la dimensione individuale a quella collettiva. La serie in sé, dunque, diventa il pretesto per uno scivoloso dialogo interiore che si innesca di fronte alle provocazioni etiche del film. È la stessa natura umana che viene interrogata su violenza, supremazia del più forte sul più debole, possibilità di scelta e disuguaglianza.
La scenografia di Squid Game paragonata alle pratiche naziste
Tra le caratteristiche più evidenti nell’estetica di Squid Game notiamo l’omologazione e la spersonalizzazione che subiscono i giocatori una volta arrivati nell’isola deserta.
Elemento degno di nota è il fatto che, il manager iper-istruito tanto quanto il criminale navigato, di fronte ai giochi diventano uguali. Tutti indossano una tuta bianca e verde con un numero progressivo, che ricorda molto le procedure naziste di registrazione dei prigionieri.
In merito a questo dettaglio è stato interrogato lo stesso regista della serie, il quale ha affermato che tale scelta non è casuale. Nello specifico, si tratta di uno stratagemma visivo per far perdere la propria identità ai partecipanti alla sfida, in modo che diventino solo dei numeri e smettano di essere visti come persone.
Omologazione, ma anche depersonalizzazione: a nessuno interessa più il tuo nome o chi sei veramente. Le stesse sentinelle in tuta rossa, armate fino al collo, intervengono allo scopo di stabilire l’ordine e mantenere una certa gerarchia nei confronti dei prigionieri/giocatori, come la polizia politica di ogni regime totalitario.
D’altronde, il gioco da sempre nella storia dell’uomo ha lo scopo di educare il bambino al rispetto delle regole, alla prudenza dei comportamenti, all’obbedienza verso i “grandi”. Perderlo ha come unica e sola conseguenza: la morte. Coerente, se si pensa all’idea dell’uguaglianza; del resto, la morte è forse il solo momento che renda davvero uguali tutti gli esseri viventi.
È in questa maniera, quindi, che una società disumana dimostra di non aver realmente bisogno delle persone per il loro valore, bensì come dipendenti produttivi che, se si dimostrano incapaci di vincere la lotta al più forte, possono anche sparire.
Schiavi dell’individualismo…
La critica al modello economico capitalistico è probabilmente l’aspetto più evidente della serie.
“Ricchi che trattano le persone come cavalli da corsa. È così che funziona il mondo”.
Le parole del protagonista in uno dei primi episodi della seconda stagione mostra tutto l’intento critico e provocatore di Squid Game. I ricchi uomini d’affari ideatori del gioco si divertono vedendo poveri disperati assetati di denaro cimentarsi in ridicoli giochi infantili, lottando contro la morte.
È evidente che chi vince i soldi perde tutto il resto. Sopravvivere a questo gioco infatti significa accettare di aver messo il denaro al di sopra delle vite di tutti i giocatori, persino della propria.
Hwang Dong-hyuk in un’intervista precisa che il suo è un atto di accusa verso l’ingiustizia sociale prodotta dal capitalismo:
«Sono convinto che l’ordinamento economico globale è fondato sulla disuguaglianza e che al 90% gli esseri umani sono convinti della sua profonda ingiustizia».
Vi è in tutta la serie un’implicita critica al flusso della modernità: un’epoca del volatile e del transitorio. Il denaro è ciò che muove le azioni dei giocatori e ne determina il loro destino; persino le loro vite hanno un’equivalente in denaro. Per ogni giocatore morto aumenta il bottino e ciò spinge sempre di più i sopravvissuti a voler vincere nei modi più crudeli e disumani.
…e del capitalismo
Lo scopo del multimiliardario ideatore del gioco è quello di mettere fine alle persone senza speranza per “non farle più soffrire”. L’obiettivo profondo è poi quello di prendere gli organi dei giocatori eliminati per donarli alle persone che ne hanno bisogno e che “vivrebbero degnamente”. Viene spontaneo chiedersi allora: da cosa può essere determinato il valore della vita di una persona? Chi è considerato, chi può vivere degnamente e chi lo decide?
Alla luce di ciò, viene da pensare alla concezione di Karl Marx quando, alludendo all’economia capitalistica, parlava di una “mercificazione dei rapporti“. L’etica della solidarietà viene a mancare nella realtà sociale dove la logica razionale ed economica preclude ogni forma di associazione.
Il gioco diventa un tutti contro tutti all’insegna del “mors tua vita mea”, l’homo homini lupus di una società dove il denaro è motore principale in un sistema che genera diseguaglianze, vincenti e perdenti a volte quasi per caso.
Una critica sociale alla Corea del Sud
Il regista lascia trapelare tra le linee una denuncia alla condizione sociale della Corea del Sud.
Parliamo di un Paese che è andato incontro a una forte crescita negli ultimi 60 anni passando da una condizione di povertà a divenire una delle quattro “Tigri Asiatiche”. Questa crescita economica, tuttavia, è stata tanto forte quanto diseguale. La ricchezza è concentrata nelle mani di poche famiglie ricche e potenti mentre la maggior parte della popolazione vive in condizioni di scarsità economica.
Spesso gli individui sono letteralmente posti sul filo della morte. Non è un caso che nella Tigre asiatica si registri il più alto numero di suicidi. Anche lo stress è considerato un valore: significa che ci si sta impegnando per la prosperità, propria e del gruppo. Ecco, dunque, che perdere in Squid Game rimanda alla dura metafora della sopravvivenza sociale in Corea.
Disuguaglianza e violenza
Fra le questioni che si collocano al centro dall’opera c’è proprio quella del “merito”. Squid Game può essere interpretato come una feroce parodia della “meritocrazia” e di come essa si incarna nella moderna società coreana. Il mito del successo individuale e l’etica meritocratica a esso collegata, è presentata dal regista come una mistificazione che, offrendosi come rimedio all’ingiustizia, finisce in realtà per coprire la vera causa delle diseguaglianze sociali.
Il tema della disuguaglianza è dunque uno dei temi di riflessione che con maggior insistenza si trovano nella serie. Inoltre, la violenza che funge da filo conduttore della serie, entra in netto contrasto con i principi delle due religioni maggiormente diffuse in Corea del Sud: il Buddismo e il Cristianesimo. Entrambe le dottrine si caratterizzano da un’etica fondata sull’esortazione alla non-violenza, sul dominio di sé stessi e delle proprie passioni, sulla condanna alla ricchezza. Tutti concetti che sembrano annullarsi nella realtà, in favore del calcolo razionale, dell’interesse personale e sulla strumentalità dei rapporti.
Squid Game quindi ha sia acceso un faro sulle disuguaglianze di classe nella moderna Corea del Sud ma ha anche dipinto un ritratto, universale e globalmente valido, della disperazione dei cittadini spinti sul baratro dal sistema capitalistico.
Un gioco etico sul libero arbitrio
Squid Game ci propone, tra le altre cose, un laboratorio di etica attraverso dilemmi tragici della scelta morale. Tra le moltissime questioni etiche che solleva, emerge sin dall’inizio quella della libertà. I giocatori, tutti adulti, hanno scelto volontariamente di aderire ai giochi, dando per iscritto il loro consenso.
Emblematica è la scena che ricorre nella prima puntata della seconda stagione. Il misterioso uomo d’affari offre a numerosi senzatetto una panino e un gratta e vinci e quasi tutti scelgono il secondo, indignandosi poi perché il cibo da loro scartato viene successivamente distrutto. La risposta dell’uomo svela quella che sintetizza un po’tutta la morale della serie:
«Io le ho dato un’occasione e lei ha fatto una scelta. Non sono io quello che ha gettato il pane signori».
Sono tuttavia queste persone veramente libere di scegliere?
I partecipanti al gioco, nelle loro diversità, hanno tutti una cosa in comune: sono persone fortemente indebitate e, per questo, vivono ai margini della società. Il gioco offre loro quella che pare essere l’ultima occasione di rifarsi una vita. Non tutti sono finiti in questa situazione per loro colpa, tutti, però, hanno perso le speranze di potercela fare da soli.
Fino a che punto riteniamo una persona che si sente schiacciata dagli eventi, senza via di uscita, libera di scegliere come agire? È davvero “libero” di scegliere l’alcolista in astinenza al quale venga offerto un alcolico o chi soffre di ludopatia di fronte ad una slot machine? E quanto è corresponsabile chi, sapendo della debolezza di chi ha di fronte, la sfrutta a proprio vantaggio?
Il problema etico che si pone è quello dell’autonomia morale dell’agente razionale. Entro quali condizioni è l’agente libero di scegliere?
Il tema dell’autonomia morale e della libertà di scelta cresce di complessità nel proseguo della serie. Via via che si avanza nel gioco, i giocatori verranno sempre più coinvolti nel determinare la morte dei propri compagni di gioco, diventando così sempre più corresponsabili degli omicidi.
Ginevra Tinarelli per Questione Civile
Sitografia
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