Non è infrequente sentir affermare che una problematica altro non sia che una percezione, frutto di una narrazione o figlia dell’incrocio di più narrazioni, i cui scopi si riducono alla configurazione della realtà in una foggia perfettamente comprensibile e proprio per questo estremamente facile, semplice: piatta. La narrazione avrebbe pertanto il potere quasi alchemico di stabilire la substantia rerum, la natura delle cose per intenderci, di trasformare le res assegnando loro statuto ontologico e valoriale, offrendone così un senso all’interno del marasma nel quale ci troviamo a essere.
Tutto ciò a dimostrare la forza e la consistenza delle narrazioni stesse: nate da un insopprimibile bisogno umano, la loro cogenza esistenziale ci trasporta da lidi inesplorati e sconosciuti a entroterra noti e attraversabili. Disperatamente cerchiamo un senso, un fil rouge che colleghi, quasi rileghi, e normalizzi tutto ciò che esubera tali limiti in modo da poter essere così processato, smembrato, unificato e poi disgiunto, sempre nella direzione di una linearità di sviluppo (inizio – Spaltung, con annesso aumento della tensione – conclusione come ristabilimento di un ordine precedente l’inizio stesso (i problemi iniziano sempre prima della loro situazione di partenza nell’arco narrativo che è già a sua volta la primaria testimonianza di un avvenuto disequilibrio che porta l’essere umano a indagare le tracce e a trovarne non solo un senso, ma pure un significato)).
Apofenia, in fondo: individuiamo o cerchiamo di vedere gli inconvenienti come le tappe di un tragitto che porta dall’indistinto al distinto, dal casuale al determinato. Tale procedimento è chiarissimo allorquando ci si affaccia ad analizzare le operazioni di elaborazione del lutto. Fornire una forma, informare, venire a capo di una motivazione o di una omissione, leggerne in filigrana uno sviluppo manifestantesi nello slancio proteso al futuro che la perdita sembra annebbiare: ogni narrazione ha la capacità ontologica di farci ricominciare daccapo ogni qualvolta ci venga a mancare un caro. Pertanto ha questo duplice status: ricostruzione di un passato (interpretato come causa) e costruzione (Aufbau) di futuri possibili e alternativi (gli effetti). La narratività unisce e collega.
Date queste premesse, si può comprendere più agevolmente il ruolo che ha avuto quella corrente di pensiero che dall’arte ha sconfinato in molteplici campi del sapere: il cosiddetto postmoderno. “Cosiddetto”, perché assai difficilmente sussumubile al di sotto di un cappello definitorio. Evidenziandone i caratteri principali, Andrea Poma nel suo Cadenze si concentra su tre elementi:
- Affermazione delle differenze di contro alla centralità dell’identità
- La frammentazione del soggetto
- La fine della Storia direzionata e teleologica.
Punti che possono essere riassunti così: fine di ogni grande narrazione, e proliferazione della micronarratività.
Ma cosa si deve intendere per “fine di ogni grande narrazione”? Principalmente, è da intendersi quella peculiare strutturazione del pensiero il cui punto focale è la costruzione di un sistema che possa ordinare il Reale. In quanto sistema, essa consisterebbe proprio nel porre accanto, nel tener insieme sotto un’unica ala le molteplicità dell’Essere che verrebbero così inserite in un organismo più complesso e polifunzionale.
La narrazione sarebbe pertanto il riporre ogni singolo particolare molteplice all’interno della scaffalatura dell’Essere, di modo che tutto si ritrovi al proprio posto. Non potendo pensare l’eccedenza e l’eccezione, che come tali sono manifestazioni eccentriche e centrifughe, le sfaccettature e sfumature corrono il rischio di essere ridotte o a diminutio d’essere o, financo, espulse dal sistema che per autoconservarsi ne eliminerebbe le istanze.
Partendo da queste considerazioni, pertanto, il pensiero postmoderno ha riletto il processo narrativo come la modalità suprema di affermazione di una dimensione unitaria e unica, caratterizzata dalla tendenza all’esclusione, all’eliminazione e all’assoggettamento: alla monodimensione della voce vincente. La Storia la scrivono i vincitori: vae victis.
Le grandi narrazioni, in fondo tutte enoteisticamente riunite sotto la Grande Narrazione logico-metafisica (nemico numero uno del postmodernismo è il ‘buon’ Hegel), sono le rappresentazioni di quella immensa Potenza livellatrice coartante le divergenze in un’unica direzione, la sola dotata di senso (nella duplice accezione semantica di direzionalità – senso di marcia per intenderci – e significatività). E questa azione coatta non può che essere definita altrimenti che Violenza. La Grande Narrazione, teo-logico-metafisica, imprime così al tutto una torsione violenta e tiranneggiante.
Consapevoli di ciò, gli artisti prima e i filosofi poi, hanno sentito l’esigenza di decostruire l’impianto narrativo dominante, lasciando che le energie – le potenze – in esso sepolte potessero finalmente avere libero sfogo: la macronarrazione ha così lasciato il posto al proliferare delle micronarrazioni.
Storie minori e dei depotenziati, le micronarrazioni sono oggi diventate la vulgata della nostra contemporaneità. Sorte dal solco emancipativo della dismissione monostrutturale, hanno incarnato quel sogno riappacificatore dopo l’incubo mortifero di quel Novecento troppo breve e lacerato dall’insensatezza di un presunto senso supremo (patria, spazio vitale, ideologismo politico). Riconoscere pari dignità tanto all’identità quanto alla differenza ha permesso che si virasse decisamente verso una società maggiormente consapevole e aperta, plurale e stratificata in una complessità dai “mille piani” e contemplante le “anarchie incoronate” (espressioni, entrambe, deleuziane). Spezzare il discorso unico per aprire la strada ai molteplici discorsi. Queste, almeno, le intenzioni.
Difatti il suo prodotto di maggior prestigio, il Web, figlio di quella disseminazione che ha spezzato l’arco narrativo unico riversandolo in una molteplicità fuori controllo, ci mostra il negativo della piccola narrazione: l’intensificazione della potenza e della pervasività della violenza in quelle schegge narrative impazzite. Cyberbullismo, leoni da tastiera, haters sono alcune delle nuove figure che emergono dall’intensificazione dei cicli narrativi che si susseguono senza sosta e che molto spesso sono del tutto incomunicanti gli uni gli altri e perfettamente targettizzati, creati quasi su misura per costringere gli utenti a leggere il mondo identificandolo con il loro mondo.
In questa proliferazione il potere della violenza si è a sua volta parcellizzato non coinvolgendo più la totalità analogica (pensiamo al totalitarismo e alla sua saturazione degli spazi) ma le totalità digitali, binarie e distanziate da un abisso incolmabile. Non si può più parlare di una violenza unica e monodimensionale (posto che non si voglia indagare il Web in toto, ma chi può riuscirci?), ma di violenze, estensivamente minori e per questo intensivamente maggiori, sempre più efficaci quanto più in grado di isolare i destinatari che si trovano subissati e intrappolati in narrazioni che pretendono, riuscendoci per giunta, di descriverli.
Singolare rovesciamento di logica che vede lo spirito libertario ed emancipatorio surclassato da quelle schegge fuori controllo che sono riuscite a riprodurre nel piccolo, rendendo onnipervasiva e onnipresente quella violenza così a lungo combattuta.
Motivo più che valido questo, e compito per la nostra contemporaneità, è proprio quello di operare il più possibile in direzione di una comprensione dei fenomeni e delle manifestazioni della nuova violenza, un sorvolo meta-narrativo che ci permetta di comprenderne la logica sottesa, interrompendo, o quanto meno mitigando, quel circolo vizioso all’interno del quale rischiamo di immergerci sempre più.
Simone Vaccaro per Questione Civile XXI
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