Marcelo Enrique Conti: resistenza, separazione e rinascita

Marcelo Enrique Conti

Intervista a Marcelo Enrique Conti, autore del libro “Gira così”

Marcelo Enrique Conti nel 1976, anno del Golpe di stato in Argentina che portò all’instaurazione di una dittatura militare, è stato sequestrato a Buenos Aires per presunte attività sovversive insieme a tanti altri ragazzi argentini. Oggi è professore ordinario di Management ambientale e Sostenibilità all’Università di Roma La Sapienza. È autore del libro “Gira così” nel quale racconta e testimonia la sua esperienza di desaparecido fino al suo arrivo in Italia, la sua seconda patria, il luogo della “rinascita”.

Marco Alviani – Grazie Professore per aver accettato di concederci questa intervista: per noi è un vero onore. Inizierei con una domanda piuttosto generale, che possa permettere a chi ci legge di calarsi a pieno nel clima dell’epoca: cosa significava vivere nell’Argentina del 1976 e per quale motivo lei è stato arrestato e segregato per 19 mesi?

Marcelo Enrique Conti Grazie dell’opportunità. È un piacere per me poter raccontare questa storia che credo sia importante soprattutto per i più giovani. Come tu hai detto ci sono molti aspetti da trattare, innanzitutto cosa significava vivere in Argentina nel 1976. Vivere in Argentina nel ‘76 era molto difficile perché c’era una situazione pressoché schizofrenica: di giorno era tutto lindo e pulito, la sera la gente spariva e veniva uccisa.

Questi militari argentini assassini, queste squadracce, non hanno ripetuto l’errore che ha commesso Pinochet mettendo tutti nello stadio[1]. In molti venivano fatti sparire, si diventava desaparecidos, come è capitato a me una mattina di novembre del 1976.

Il motivo per cui sono stato arrestato è che io ero un oppositore, anche se avevo già lasciato la militanza politica perché avevo capito che nell’organizzazione cosiddetta “rivoluzionaria” di Montoneros[2] c’era una situazione di governo autocratico, insomma non c’era una discussione, si davano ordini: metti una bomba qua, fai questo qua…e io mi rifiutai.

Nonostante ciò, mi hanno arrestato, buttato in una macchina e portato in un campo di concentramento. Qualcuno aveva fatto il mio nome sotto tortura proprio per salvare la sua vita. Una parte del nostro gruppo era stata promossa a livello del gruppo di fuoco ed è chiaro che, se qualcuno avesse fatto i nomi di persone appartenenti al gruppo di fuoco sarebbero stati uccisi all’istante. Eravamo tutti condannati a morte.

Mi portarono non so bene dove e mi torturarono per diversi giorni, nonostante fosse chiaro che io non avevo le informazioni che loro volevano. Nel mio libro, Gira così, racconto questa storia che si basa, come ho realizzato in seguito, fondamentalmente su tre parole: resistenza, separazione e rinascita.

La mia disperazione era totale, sapevo di dover resistere, resistere e resistere. Quello che ci tiene in vita è il rapporto con le persone che la vita ci ha fatto incontrare, l’amore insomma. Ovviamente in molti poi cedevano alle torture e finivano a lavorare addirittura con gruppi che chiamerei “nazisti”.

Essere desaparecidos è una condizione terribile perché sei un numero, non sei nessuno. Ti vogliono far impazzire, ad esempio non dicendoti se è giorno o notte, ti vogliono far perdere il rapporto con il tempo. Ti vogliono annientare, in primis fisicamente e poi anche, soprattutto, a livello psicologico.

Vivere nell’Argentina del ’76, quindi, era una cosa difficile. Capitava di pensare “tanto a me non succederà mai, non mi sequestreranno” invece questo fatto è successo, con una violenza inaudita sulla mia vita, sui miei progetti di vita. Tenete conto che io ero ragazzino di 17 anni quindi ero praticamente quasi un bambino, un adolescente, che voleva cambiare il mondo, facendo un lavoro di coscientizzazione nelle baraccopoli di Buenos Aires. Ora, che coscientizzazione può fare un ragazzo di 17 anni che non ha ancora un’esperienza di vita?

Marcelo Enrique Conti

M. A.  – Lei è stato rilasciato in occasione del mondiale di calcio del 1978 tenutosi proprio in Argentina per una sorta di bisogno di allentare la presa da parte del regime, vista l’imponente esposizione mediatica. Come si sopravvive ad una detenzione così feroce e violenta? Nel suo libro parla di “psiche distrutta” a seguito di quell’esperienza. Come ha cercato di ricostruirla?

M. E. C. Sì esattamente, il Mondiale di calcio del 1978 è stato un mondiale truccato e corrotto, in cui i peruviani sono stati corrotti in qualche modo perché l’Argentina aveva bisogno di vincere assolutamente[3]. Per questioni politiche e militari volevano dare questa immagine di un’Argentina tranquilla, buona, il che era assolutamente falso come ho già raccontato prima. Tutti coloro che riuscivano a scappare raccontavano cosa veramente stava accadendo in quel periodo.

Ricordiamoci che uno dei principali sostenitori dell’azione dei militari è stato Henry Kissinger, che è premio Nobel per la pace, sembra un paradosso! Kissinger (che oggi ha 100 anni di età) e Videla, capo delle forze armate argentine, sono andati insieme a salutare i giocatori nello spogliatoio: così è scritto in alcuni documenti.

Bisognava allentare la presa perché c’erano molte denunce. Dovevano dare il buon esempio e quindi io sono rientrato in questo progetto. Per mia fortuna sono stato in qualche modo “liberato”, sono uscito con la “legge di opzione”, una normativa secondo la quale se tu venivi detenuto senza processo per più di 28 giorni potevi scegliere di andare all’estero. Nella disperazione di quel momento la mia famiglia, mia madre in particolare, si è data da fare per ottenere questo beneficio e sono riuscito a venirne a capo.

Come si sopravvive ad una detenzione così feroce? Si sopravvive soprattutto con la resistenza, con la vitalità, quel grammo d’amore, quel calore amoroso che uno ha nei rapporti intimi o nei rapporti anche familiari. Sono quei momenti particolari che si vengono a creare che danno una struttura di sanità a coloro che sono riusciti a non impazzire: l’ambiente era terrificante e c’erano tutti gli estremi per impazzire.

La psiche era veramente distrutta: camminavo per strada e i palazzi mi cadevano addosso, sentivo che c’era qualcosa che non andava soprattutto nel rapporto con la realtà. È stato un lungo percorso quello che ho dovuto fare. Ho avuto la fortuna di incontrare l’analisi collettiva di Massimo Fagioli. Per recuperare una psiche distrutta bisogna avere una teoria che funzioni, una teoria esatta; certamente non mi avrebbero aiutato le teorie che dicono che l’uomo nasce malato e perverso, come il freudismo etc. Rivoluzionaria, per me, è stata la teoria della nascita di Massimo Fagioli, che rivela che nasciamo tutti uguali con la stessa dinamica fisiologica.

La teoria di Fagioli si basa sul metodo deduttivo e ha avuto molte conferme da neonatologi e altri studiosi. Il punto fondamentale della sua scoperta riguarda la luce che colpendo la retina alla nascita attiva immediatamente la sostanza cerebrale che reagisce all’ambiente esterno inanimato. Luce – freddo – aria. Reagisce con una pulsione di annullamento, che simultaneamente fusa alla vitalità, realizza la cosiddetta “capacità di immaginare”. Questa è la fantasia umana, che ci separa dagli animali: abbiamo la fantasia, possiamo scrivere poesie, fare musica, sognare, pensare e creare (un leone che balla il tango non si è mai visto…).

La vitalità, che si attiva alla nascita, è collegata al fatto che il feto nell’utero, attraverso la cute ha le capacità di realizzare, recependo le qualità dell’oggetto (calma, calore), l’esistenza dell’oggetto.

Mi ricordo in particolare quando è nato mio figlio: l’ostetrica lo teneva in braccio, lui guardava a destra e a sinistra come a dire “dove cavolo sto” e ancora non piangeva. Sono proprio quei 20 secondi alla nascita in cui si forma il pensiero, la prima attività psichica che porterà il bambino alla ricerca dell’altro essere umano e a vivere la propria affettività. Se poi questa affettività viene confermata da una madre amorosa, da una madre che, oltre a nutrire il bambino gli dà calore e affetto, il bambino crescerà sano; altrimenti può esserci una situazione patologica se la madre oppure la persona che si prende cura di lui è anaffettiva e indifferente.

Questi sono alcuni punti della teoria di Fagioli e io mi sono curato con questa teoria, attraverso un lavoro di cura, formazione e ricerca. È stata un’azione molto lunga nel tempo, che ha richiesto un lavoro costante per sconfiggere la depressione. Ero libero è vero, ero felice, ma comunque i muri mi cadevano addosso, ero completamente solo. Avevo tutta la vita davanti, ma stavo fondamentalmente male.

Certo sono molte le storie brutte da raccontare. Abbiamo saputo dei 4000 bambini morti sotto le bombe nella striscia di Gaza, oppure di quello che accade in mare con i migranti, alcuni dei quali non riescono ad essere salvati o vengono addirittura abbandonati. Sono loro i nuovi desaparecidos di oggi! Ci sono molte storie difficili. Quello che mi interessava raccontare, questo poi l’ho capito dopo, l’ho fatto istintivamente, era la testimonianza della possibilità di cura, di speranza, di trasformazione dell’esistente in un qualcosa di meglio.

M. A. – Quindi la teoria di Fagioli l’ha aiutata ad elaborare la sua condizione dopo la liberazione. Invece, durante la detenzione, riusciva a proiettare la mente al futuro e quindi ad avere in qualche modo la coscienza e l’idea che prima o poi quel momento sarebbe finito oppure era più concentrato sul presente, ovvero sull’idea che forse non ci sarebbe stato effettivamente un vero e proprio futuro?

M. E. C. Noi eravamo condannati a morte. Io poi sono stato trasferito in un altro campo di concentramento, che poi ho scoperto essere el Vesubio: lì era l’inferno, la gente che urlava, eravamo incatenati per terra. Alcuni che erano con noi non sono più tornati. Fu magico, si fa per dire, il momento in cui questo assassino-torturatore mi disse “ti sei salvato, abbiamo deciso che tu vivrai”.

Io ero il numero 29 nel campo di concentramento. Lì ho cominciato tutto un percorso perché, quando uno è un desaparecido è un numero, è nessuno, non esiste. Quando poi mi hanno trasferito in carcere, il 12 dicembre del ’76, fu terribile, ma almeno lo stato, il cosiddetto “stato canaglia”, riconosceva la mia esistenza come persona; quindi, ero una persona esistente e ho potuto incontrare la mia famiglia, mia madre.

Mia madre ha rischiato veramente il tutto per tutto: infatti io devo moltissimo alle donne [n.d.r. il Professore è visibilmente commosso] che mi hanno amato, a mia madre che ha rischiato tanto per tirarmi fuori da questa situazione, a mia sorella che era piccola e si è trovata con questo fratello scomparso, le visite settimanali e le perquisizioni umilianti che hanno dovuto sopportare.

Poi, parlando più in generale, ma non per questo meno importanti, alle madri di Plaza de Mayo, che hanno reclamato e molte delle quali non hanno più visto i loro figli: hanno avuto coraggio da vendere. Il coraggio delle donne lo vediamo anche nelle donne della terra dei fuochi in Italia, che hanno combattuto per difendere i loro figli che si sono ammalati di contaminazione legata fondamentalmente a inquinanti organici etc. e si sono ammalati di leucemia. Poi Ilaria, la sorella di Cucchi, che ha combattuto duramente per avere la condanna dei militari che hanno ammazzato il fratello. Le donne sono la mia forza fondamentale, bisogna carpire il loro segreto. Come dice Fagioli: ‘Il segreto del ventre di donna immune all’istinto di morte’.

M. A. – Quanto ritiene che l’indifferenza delle persone comuni abbia influito sulle atrocità commesse durante quegli anni? Lei afferma che era normale sentire nei luoghi pubblici la frase “se l’hanno portato via qualcosa avrà fatto”, proprio riferendosi ai ragazzi scomparsi.

Marcelo Enrique Conti Sì, ai ragazzi scomparsi, che non erano soltanto argentini, ma anche molti cittadini italiani e spagnoli. Anche nella mia famiglia qualche zio diceva “Marcelo avrà sicuramente fatto qualcosa di male…”, poi quando sono tornato nel 1983 in Argentina avoglia a chiedere scusa. “Non sapevamo nulla, non sapevamo nulla”: l’indifferenza è una malattia, è un fatto gravissimo. Non si può essere indifferenti di fronte a fatti del genere. L’indifferenza dei compagni di classe mi ha lasciato allibito. Io frequentavo una delle migliori scuole, quella dei Fratelli Maristi, sempre storicamente servili al potere. Allora la scuola era solo maschile. Durante le lezioni di religione, il prete diceva che “quelli che hanno aderito alla guerriglia sovversiva, sono coloro che hanno intrapreso la strada del diavolo!” quindi, io ho seguito la strada del diavolo. Quindi questa indifferenza e questo disinteresse mi hanno portato ulteriore sofferenza.

M. A. – Credo che l’indifferenza sia un tratto comune quando si sentono racconti relativi alle deportazioni, penso ad esempio a quella degli ebrei e alla testimonianza preziosa della senatrice Liliana Segre, che fa sempre riferimento all’indifferenza dei compagni di classe…

M. E. C. Anche quelli che sono morti in fondo al mare…il disastro di Cutro come anche molti altri naufraghi. Anche io sono un emigrato, ho la fortuna di avere la cittadinanza italiana e l’ho saputo molto dopo…ma anch’io sono scappato da una situazione tragica, drammatica e sono stato accolto, nonostante gli Anni di Piombo, diciamo tutto sommato bene, sono riuscito a laurearmi, a studiare, a prendere borse di studio e a reintegrarmi.

M. A. – Nel caso dei migranti, oggi non solo c’è indifferenza, ma a volte si dà anche la colpa al migrante: è morto perché ha deciso di partire, perché ha deciso di imbarcarsi. La questione viene quasi rigirata…

M. E. C. Sì, questa cosa è anticostituzionale, contro ogni logica, perché non si può colpevolizzare una persona perché vuole cambiare la sua vita, è un diritto di tutti poter cambiare e poter migliorare la propria situazione. Ribadisco ancora, sono loro i nuovi desaparecidos di oggi.

M. A. – Abbiamo parlato di migrazione, quindi possiamo spostarci in Italia: cosa conosceva di questo paese prima di arrivarci? Con il senno di poi crede che ci sarebbe stato un posto migliore in cui fuggire? Fermo restando che chiaramente non c’è paragone con le terribili carceri del regime di Videla in Argentina, è pur sempre l’Italia degli Anni di Piombo…

M. E. C. Ci sono molte analogie che ho incontrato. Intanto io ho scelto di immergermi nella realtà che vivevo, non partecipavo ai gruppi di ex Montoneros, di compagni che si riunivano a bere il mate e a mangiare la carne le domeniche…che è una cosa bella di per sé, è vero, però io ho sempre vissuto questo come uno stare un po’ fuori dalla realtà. Mi sono separato, non per superbia, ma semplicemente perché credevo che, se io sto qui in Italia devo seguire questa realtà. Infatti, quando alcuni mi vedevano, dicevano “ma questo da dove viene? Chi è?”, insomma non facevo parte di questi gruppi melanconici che rievocano il passato. Io volevo andare avanti: la vita è una separazione costante, forte, a volte anche un po’ dura, però è una ricerca dell’affettività.

Il lavoro che ho dovuto fare è stato anche sulla mia personale anaffettività; quindi, la rivoluzione va fatta su sé stessi, prima di poter modificare l’esistente. E per questo, ripeto, ci vuole, come ho detto poc’anzi, una teoria sana. Non bisogna farsi ingannare dalle false sirene, dalla cultura dominante che ti dice: tu sarai sempre depresso, sei inguaribile, devi stare male, devi accettare il malessere, non è possibile ribellarsi, sei condannato.

M. A. – Quindi arrivando in Italia, il paese che in qualche modo la ha accolta: cosa conosceva già di questo paese?

M. E. C. Io avevo l’immagine di mio nonno, lo racconto nel libro. L’Italia per me era una cosa molto lontana, anche se mio padre parlava perfetto italiano, non eravamo una famiglia nella quale si guardava molto alla tradizione, come fanno gli americani…io sinceramente odiavo questo atteggiamento. Avevo questi ricordi affettuosi di mio nonno e mia nonna, sapevo dire qualche frase, ma fu in carcere, mi ricordo, nel dicembre del ’76, che capii di aver diritto anche alla cittadinanza iure sanguinis italiana e meno male, questo è stato un colpo di fortuna enorme, aver trovato i documenti.

Sono stato accolto bene. È vero la situazione era drammatica in Italia però c’era sempre una porticina dalla quale tu potevi scappare. Avevo vinto due borse di studio, ho rinunciato ad una delle due. Ho potuto lavorare su me stesso, grazie anche all’esperienza dell’analisi collettiva di Fagioli, che, come ho già detto, è stata davvero importantissima. Mi ha ricostruito come uomo. Senza esagerare, penso sia veramente tutto un percorso di ricerca fondamentalmente, cioè non è la felicità surgelata che uno compra e la ottiene immediatamente, ma semplicemente è una ricerca sulla propria realtà interiore e poi, nel mio caso, aiutata anche dal rapporto con le donne e con l’amore.

M. A. – Le testimonianze di chi ha vissuto in Italia durante gli Anni di Piombo sono testimonianze di persone che erano effettivamente preoccupate che la situazione potesse sfuggire di mano, la violenza era tanta e in più momenti si è paventata la possibilità non dico di colpi di Stato, ma comunque di situazioni critiche. Lei, col suo bagaglio che si portava dietro, è riuscito diciamo a vivere meglio questa situazione, razionalizzarla?

M.E. C. Quando sono arrivato avevo diciannove anni, ero un pischello, non avevo nessuno a cui fare riferimento. Prima di tutti ho incontrato un prete, che mi ha aiutato molto; poi ho incontrato un’altra famiglia che mi ha dato una mano. Il clima era pesante. Nel ‘93, durante il governo Ciampi, come sappiamo, ci fu un tentativo di colpo di Stato, che era quasi pronto, questo riportavano le cronache.

Avevo casa a piazza Bologna e c’erano lì vicino questi militanti di Prima Linea, credo fossero di Prima Linea[4], e mi lodavano: ah tu sei bravissimo, hai resistito ai simulacri di fucilazione, hai sopportato la tortura per giorni interi, hai tutto il curriculum pronto per entrare nella lotta armata,… e (aggiungo) “andare a sparare a un poliziotto magari della mia stessa età”.

Io in quel momento non ero ovviamente come adesso, con un’identità forte e formata, ero un ragazzino…però mi si accese comunque una fiammella che mi fece dire a questi di andare a quel paese. Ho detto di no perché era un suicidio, sarebbe stato ripetere ancora una volta quel percorso diciamo di “suicidio nobile”, morire da eroe come Che Guevara, del quale negli anni ho capito che aveva sbagliato, è duro da dire ma è così. Certo, è facile fare la storia con lo specchietto retrovisore, è molto facile.

M.A. – È notevole la forza che ha avuto nel rifiutare richieste come queste. Immagino che la rabbia che covava dentro, per quello che le era successo, in altri casi sarebbe potuta sfociare facilmente nella violenza…

M. E. C. Sì, è vero, è proprio vero quello che dici: la rabbia che avevo era tanta, dovevo smaltire tutta quella rabbia, che poi sono riuscito in qualche modo a curare, ad eliminare e addirittura a raccontare (spero) in modo “pulito” nel libro. Sarebbe stato drammatico, sarebbe stato un ripetere l’esperienza dell’Argentina; invece, io avevo dentro di me questa voglia di separarmi.

Lì credo che la mia forza sia stato il rapporto con mia madre, me lo ha detto poi un’amica psichiatra che aveva letto il mio libro. Mia madre sicuramente nei primi anni di vita mi ha amato follemente, poi sono successe tante cose, mi ha dato l’affettività, quella che ti dà la solidità per resistere, per andare avanti.

L’obiettivo è quello di lasciare traccia, riuscire con questa intervista ad interessare le persone, a dare speranza. Certo, non è che tutti devono essere torturati per realizzarsi, però la resistenza è importante, aprire gli occhi rispetto a chi ti sta vicino e dice di amarti, ma poi non è così.

M. A.Ci siamo in questo modo collegati perfettamente con l’ultima domanda che volevo porle. La sua storia, tutto quello che ha passato e quello che poi è riuscito a diventare sono la dimostrazione che anche nei momenti peggiori è sempre possibile rialzarsi. È anche questo che ha voluto comunicare con il suo libro, raccontando la sua esperienza?

M.E.C. Sì, grazie per la domanda. È sempre possibile rialzarsi, superare quella disperazione nera che ti porta a non vedere la speranza e la possibilità di cambiamento. Nei momenti difficili è sempre possibile comunicare, bisogna resistere, non cedere all’onnipotenza dell’istinto di morte. La depressione si può curare con un lavoro di ricerca: superare la situazione di conflitto.

Per me questo fu importante, capire che non puoi superare il momento di disperazione nera non perché sei incapace, ma perché evidentemente c’è una situazione di crisi temporanea. Di fronte a questo pensiero la situazione di disperazione viene in qualche modo intaccata. Il cosiddetto ‘disperometro’ scende fino a far sparire i fantasmi. Tutto questo è un lavoro che si fa anche con l’interpretazione dei sogni, un lavoro analitico. Ricordiamoci che i sogni sono importanti, dal momento che passiamo il 33% del nostro tempo a dormire, quindi questo vorrà dire qualcosa. C’è una realtà non materiale presente che è molto molto importante, che è quella che muove i rapporti interpersonali. È quel vedere al di là della realtà fisica e materiale, che può aiutare molto a difendersi da situazioni difficili che possono capitare nel lavoro, nella famiglia.

Certo poi ci sono tutti tipi di situazioni diverse, però è possibile cambiare, è possibile uscire da questa perdita di vitalità, da quest’ anaffettività, che è il vero nemico. Come avevo accennato prima, parlando della teoria di Massimo Fagioli, bisogna lavorare sul rapporto uomo-natura, nel senso che questo rapporto va superato per la realizzazione del rapporto interumano. Il rapporto uomo-natura, che è un rapporto di sfruttamento, riportato al rapporto interumano, diventa violenza dell’uomo sull’uomo. Praticamente, il rapporto uomo-natura si riferisce alla soddisfazione dei bisogni materiali per la sopravvivenza. Oltre ai bisogni ci sono le esigenze che, come postula Fagioli, riguardano lo sviluppo di ciascuno di noi, le ricerche che facciamo, dalla gioia di vivere, dal rapporto di amore con gli altri e la creatività comune. La differenza tra bisogni ed esigenze è importantissima.

L’uomo è uomo in quanto è in rapporto con un altro essere umano, contrariamente a quanto dicono le ‘teorie’ della cultura dominante. L’uomo non nasce perverso, non nasce malato. Gli uomini nascono tutti uguali con le stesse possibilità. Chi l’ha detto che la verità dell’uomo è quella descritta da Edipo? Sono tutte fandonie, non è affatto vero. Chi l’ha detto che l’uomo nasce perverso? Lo dice Freud quando parla del bambino polimorfo perverso, e le donne sarebbero uomini senza pene: quale mente contorta può pensare una cosa del genere?

M. A. – Per salutare in qualche modo chi ci legge, se io le chiedessi di provare brevemente a rivolgersi a quello che è il nostro pubblico principale, ovvero i giovani e proprio in virtù sia della sua esperienza personale, che ci ha raccontato in questa intervista, sia in virtù di quello che lei è oggi, ovvero un importantissimo studioso di tematiche ambientali, che cosa direbbe per provare a lanciare un messaggio di speranza?

Marcelo Enrique Conti È una responsabilità molto grande quella che mi dai. Questo è quello che cerco di fare nei miei corsi universitari, penso ad esempio all’anno scorso dove si è venuta a creare una situazione particolare e bellissima di rapporto con i ragazzi.

Cosa mi sento di dire per dare speranza? Mi sento di dire di “resistere” fondamentalmente, resistere a quelle dimensioni negative di amici che sembrano amici, ma in realtà ti si mettono vicino per distruggerti o a quelle persone che ti vengono incontro o che dicono di amarti, ma in realtà non ti amano. Una ricerca continua sulla realtà: è difficile dare speranza oggi perché le notizie che abbiamo sono molto brutte. C’è un discorso di violenza sulle donne purtroppo gravissimo in Italia, e non solo in Italia; quindi, occorre lavorare nel rapporto interumano e, ripeto, continuare a carpire “il segreto del ventre di donna immune all’istinto di morte”.

È nel rapporto con l’altro che si può crescere. La speranza è una ricerca, non è un fatto magico. La magia sta proprio nella ricerca sulla realtà interiore, la ricerca sui sogni, ovvero la rappresentazione con immagini. I sogni sono pensieri per immagini. Si tratta quindi di lasciarsi andare e fondamentalmente difendersi (facile dirlo!!). Molte persone per anni si circondano di persone che le fanno stare male, e per questo bisogna imparare ad aprire gli occhi. Come dice Taleb bisogna diventare antifragili in modo poi di poter cambiare la realtà e fare cose belle, come quelle che abbiamo fatto con i ragazzi del mio corso dell’anno passato.

M. A. – Benissimo, la ringrazio. Sono convinto che chi ci legge farà tesoro sia della sua esperienza di vita sia di tutto quello che ci ha raccontato.

M. E. C. Grazie davvero, sono onorato.

A cura della Redazione Editoriale di Questione Civile


[1] N.d.r. il riferimento è all’Estadio Nacional de Chile, utilizzato dal dittatore Pinochet come campo di prigionia nel 1973.

[2] N.d.r. il Movimento Peronista Montonero, più semplicemente conosciuto come Montoneros, è stata un’organizzazione guerrigliera argentina peronista di sinistra

[3] N.d.r. il riferimento è alla partita Argentina – Perù terminata 6-0, che ha consentito alla nazionale albiceleste di accedere alla fase finale del torneo.

[4] N.d.r. era un’organizzazione armata italiana di estrema sinistra

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2 commenti su “Marcelo Enrique Conti: resistenza, separazione e rinascita

  1. Silvia Scardini Rispondi

    Un’intervista commuovente! Grazie Prof per aver condiviso la sua storia che non smette di emozionarci.

  2. Julio César Rivero Rispondi

    Gracias Marcelo por compartir esa parte muy dura de tu vida, excelente entrevista. Un Abrazo desde Gualeguaychú, Argentina.

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