App di dating: incontrerai l’uomo dei tuoi sogni in tempi di Covid?

Il guaio di avere un’amica avvocato è che è assurdamente previdente, cauta e di solito ha pure ragione. I miei colleghi ed io, però, eravamo determinati: dopo un’attenta analisi della letteratura avevamo visto quali erano le novità in fatto di app di dating.

  • «Tu finirai a pezzi in un congelatore!»
  • «Smettila. Se qualcuno avesse un congelatore non lo sprecherebbe per me, tantomeno in tempi di lockdown.»
  • «Telefonami, quando sarai in un congelatore.»
  • «È un esperimento sociologico! È giornalismo d’inchiesta!»
  • «Senti Oriana Fallaci, tu e i tuoi colleghi vi metterete in un pasticcio, cercate di non fare troppi danni.»

In generale si registrava un picco nell’utilizzo delle app per incontri online, si riscontrava più ricerca di autenticità e meno flirt, più necessità di vedersi attraverso videochiamate e affini, telefonate più lunghe (Fonte: https://www.bossy.it/come-cambiato-il-dating-durante-il-lockdown.html).

Le app di dating prese come campione

Bene, ecco che, al sicuro del nostro ufficio, avevamo scaricato alcune app di dating, costruito i nostri profili e ci accingevamo a compiere il nostro esperimento: capire come funziona l’amore (ma anche il semplice “rimorchio”, elegantemente definito “flirt”) online ai tempi del Covid.

Il sociologo aveva modificato il suo volto con un filtro strano e si fingeva una donna. Lo psicologo si occupava dell’algoritmo con cui venivano proposti i possibili candidati ed io, che mi occupo un po’di comunicazione e un po’di cervelli, cercavo di capire i profili delle persone che si incontrano online.

Lo studio preliminare sulle app da scaricare ci aveva fatto optare per una short list:  Once, che una volta al giorno ti proponeva un match rispetto ai tuoi desiderata, Inner Circle perché sembrava popolata da belloni muniti persino di un titolo di studio, Facebook Dating perché, pensavamo, se raccatti qualcuno tra gli amici di amici, hai più possibilità che sia quello/a giusto/a. Infine l’immancabile Tinder, che “fa fine e non impegna”, e comunque è come un pullover con scollo a V, non puoi non averlo in armadio.

Nella nostra stanza, al primo piano dell’Università, c’era un gran fermento e un gran “swippare”, (sì, eravamo entrati anche noi nel gergo). In ogni pausa ci incontravamo con aria da cospiratori per ridere. Se entrava il collega della stanza accanto, l’esperto in psicologia delle relazioni, occultavamo i telefoni e ci fingevamo impegnati in improbabili ricerche di articoli: «Gli svedesi dello studio del 2014, quello con la correlazione tra lobo prefrontale e decisioni politiche… come si chiamavano?».

Quando la porta si chiudeva, scoppiavamo a ridere, come scolaretti.

Le prime osservazioni sulle app di dating

In un paio di settimane avevamo le prime osservazioni. Chi aveva rimorchiato di più in termini quantitativi era stato il sociologo. Il che apriva scenari inquietanti. Un uomo “filtrato” da donna piace più di una donna vera? Gli uomini, a quanto pare, non preferiscono le bionde, preferiscono chi pensa e scrive come loro.

Dal punto di vista degli algoritmi, lo psicologo non aveva grandi notizie per noi: aveva chiesto a Facebook Dating una laureata, non fumatrice, senza gattini e magari appassionata di videogiochi.

Piovevano diplomate, fumatrici e con cani. Lo psicologo ci informava che Facebook dell’analisi degli interessi personali non se ne faceva nulla, puntava piuttosto alla vicinanza fisica. Per noi friulani, infatti, proponeva indifferentemente persone da Austria, Slovenia e Veneto.

A nulla era servito insistere sul fatto che non capivamo tedesco e sloveno. In alternativa ipotizzava che alla base dell’algoritmo ci fosse la ricerca di un’attitudine alla vita simile. Sostanzialmente Facebook si chiedeva (e ci chiedeva) “tu come la vedi la vita?”.

Facebook, ho una risposta per te, sono miope e astigmatica, la vita la vedo confusa.

Modelli ricorrenti nell’utilizzo delle app di dating

Il sociologo ed io avevamo notato una serie pattern ricorrenti, negli uomini e nelle donne.

Prima cosa, vivevano tutti in vacanza. Di preferenza in barca a vela. Per una come me, che soffriva il mal di mare, era un bel problema. Facevano tutti sport estremi: dal deltaplano al bungee jumping, dall’arrampicata al triathlon. Tutti molto avventurosi: moto da corsa, campeggio, vacanze in tenda.

Il collega ed io eravamo i classici magrolini, lettori, occhialuti che, come sport estremo, scendevano dall’autobus una fermata prima. La cosa più avventurosa che avevamo fatto in vacanza era stato prenotare una cena alle 19 e sperare di trovare posto. Lo spirito d’avventura di profili delle chat ci atterriva.

Ci spaventava ancora la tendenza delle persone che popolano le app verso un minaccioso stile “now or never”.

«Ciao, piacere di conoscerti, ci spostiamo a chiacchierare su whatsapp?». (No, la mia amica avvocato dice che finiremo tutti in un congelatore, mi spiace).

 «Vediamoci. Ora, subito, adesso, anche prima.» (Siamo in zona rossa! Non andiamo da nessuna parte! Non ci vediamo proprio!).

«Maddai, le regole sono fatte per essere infrante.» (Lo spieghi tu alla mia amica avvocato).

E poi… vediamoci dove esattamente? Al supermercato? Ci incrociamo al bar sotto l’Università, io porto una mascherina con un garofano rosso e tu una copia di “Guerra e pace” sotto il braccio?

E niente, Nik, Alex, Gerry, Alec, Rick o Matt vogliono tutti incontrarmi. (ma quelli con un nome vero dove li tengono?).

Come comunicatrice stilo alcuni rapidi profili di chi si può incontrare su queste app. Si parte appunto dal tipo “una vita in vacanza”, perennemente su una barca a vela con il vento nei capelli (in realtà ha photoshoppato una gita in vaporetto), si prosegue col gattaro – amante del Chihuahua (non mi compri, ho visto che sei brutto anche dietro il Chihuahua), poi naturalmente ci sono gli eredi di Christian Grey, (s)colorito protagonista delle “Cinquanta sfumature di grigio”.

Foto con addominale in vista, penombra, calice con bollicine o vino rosso. Qui davvero si rischia di finire in un congelatore.

Una variante è l’uomo a cui sudano i malleoli, colui che sfida l’inverno con il piede nudo nel mocassino e il pantalone alla “zuava”.

Immaginate che coppia: io desidero uno scalda naso in finta pelliccia da settembre a maggio e lui soffre il calore metatarsico. Destinati a lasciarci in partenza.

La tricologia, sulle app, è un capitolo a parte: passiamo da un’invasione di calvi (di solito opportunamente coperti da caschetti da sci, da bici, da arrampicata o dal cappellino da barca a vela) al capello un pochino troppo fluente per i miei gusti. Che di solito, come nel film “Shall we dance”, si abbina ad una apprezzabile ma temo non condivisibile passione per il ballo latino-americano.

Per due settimane proseguiamo con le nostre ricerche e i nostri studi. D’un tratto non abbiamo più materiale. Le persone smettono di risponderci. Il lockdown si diffonde a macchia d’olio e non è affatto vero che si ha voglia di comunicare di più.

Tanto. Dove vuoi andare, cosa vuoi fare. Vedersi non si può, il tanto agognato caffè non si può prendere. Potrei restringere il campo e cominciare a pedinare proprietari di cani. Ma il mio cane non ama il genere umano. E forse nemmeno io.

La solitudine e l’influenza sulla psiche

Rileggo le evidenze rispetto a cervello e solitudine e cerco di capire. La solitudine altera il cervello, attiva la regione mediana e ci dà uno stimolo simile a quello della fame (Tomova, Wang, Thompson, Matthews, Takahashi, Tye & Saxe, 2020). Lo stesso studio, che risale al mese di maggio del 2020, ci dice che il nostro cervello, se sottoposto a periodi di solitudine ci fa percepire noi stessi e gli altri come entità separate.

Azzardo uno step successivo: dopo un po’di solitudine abbiamo “fame” degli altri, ma non siamo in grado di comprenderli, viene meno l’empatia. Sono conclusioni affrettate, è indubbio, eppure il pensiero si è insinuato nel nostro improvvisato gruppo di ricerca.

Guardandoci in faccia con i colleghi ci chiedevamo se non fosse il caso di raccontare la nostra esperienza al collega della stanza accanto, l’esperto in psicologia delle relazioni, quello che scriveva libri e articoli sul felice funzionamento della coppia, quello saccente e fastidioso.

Storcevamo il naso alla sola idea. Ma ci rimaneva il dubbio del perché, al secondo lockdown, la comunicazione si fosse esaurita.

Poi un giorno, in pausa pranzo, stavo “swippando”. La mano mi si bloccò sul cellulare. Annaspando nell’aria chiamai i miei colleghi che accorsero alla mia scrivania. Facebook Dating mi suggeriva un profilo che “matchava” col mio.

Purtroppo, era quello del collega della stanza accanto, l’esperto delle relazioni funzionali.

  • «Come è andato l’esperimento sulle relazioni sociali?»

L’amica avvocato aveva anche un’ottima memoria.

  • «Fallimentare. Tutto quello che abbiamo ottenuto è stato rimorchiare il collega della stanza accanto, l’esperto delle relazioni funzionali».
  • «Oh, quello che scrive i libri su come rapportarsi nelle coppie?».
  • «Lui» – ammisi a testa bassa.
  • «Dottor Jeckyll e Mister Rimorchione?».
  • «Sempre lui».
  • «… ma poi, alla fine, com’è questo collega?».
  • «Alto. Spallato. Per essere chiari… nel tuo congelatore difficilmente ci entrerebbe».

Viviana Capurso per Questione Civile XXI

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