EconomiaItalia: la lotta alle fake news in economia

EconomiaItalia

Intervista ad Umberto Bertonelli di “EconomiaItalia” 

La Redazione di Questione Civile ha intervistato Umberto Bertonelli, fondatore di “EconomiaItalia”.

Siamo in compagnia di Umberto Bertonelli, fondatore di EconomiaItalia. Cos’è  EconomiaItalia e come nasce? 

«EconomiaItalia è un collettivo di persone, studenti e non, unito dalla voglia di opporsi alle fake news in campo economico, cercando di dare ai propri utenti gli strumenti  per poter valutare la qualità del giornalismo economico in Italia. Il tutto è nato nell’agosto 2018 sulla piattaforma Telegram per poi evolversi su tutti i social, da Facebook, a Instagram ed infine Youtube.

Riteniamo che senza un processo scientifico che dimostri l’esistenza del collegamento fra due entità non si possa affermare nulla: correlation is not causation. Purtroppo invece in Italia l’educazione in campo economico è talmente di basso livello da rendere facile lo svilupparsi di notizie false.

La nostra mission si basa sui dati, riteniamo utile esplorare la conoscenza economica cercando di andare oltre i luoghi comuni di questa materia, i cosiddetti bias».

Secondo lei qual è il livello di cultura economica media della popolazione italiana? Dal punto di vista di EconomiaItlia, ci sono delle asimmetrie regionali in questo senso oppure è un dato generalizzato? 

«Il mio punto di vista sulla cultura economica in Italia credo sia poco interessante, ma numerosi studi confermano la scarsa conoscenza degli italiani in materia economica, a seconda dell’ente che ha svolto la ricerca variano le percentuali, ma alla fine tutti testimoniano una grandissima lacuna in questo campo.

In EconomiaItalia sappiamo che purtroppo questa informazione non è nuova e comporta anche una perdita di reddito a livello nazionale, infatti se gli italiani mediamente non hanno conoscenze in campo finanziario significa che mediamente hanno ritorni finanziari inferiori rispetto agli altri paesi. A questo si aggiunge il tema del risparmio, che in Italia significa avere grandi somme nei conti correnti fermi che comportano solo costi. Essendo che il PIL e il Reddito nazionale lordo sono molto collegati, una perdita (più propriamente qui si tratta di mancato guadagno più costi dell’inflazione) dal lato del reddito delle persone significa anche una minor crescita del PIL.

Per quanto riguarda il gap regionale non ho mai trovato degli studi con una certa consistenza che andassero nel dettaglio di questa specifica. In linea di massima l’Italia presenta forti asimmetrie tra nord e sud e potremmo ipotizzare che questa cosa si realizzi anche nelle conoscenze di base dell’economia, ma temo sia azzardato ritenere valide queste parole. Senza contare che in realtà i gap tra regioni sono molto di più che una semplice differenza fra nord e sud Italia, infatti spesso e volentieri chi si occupa di queste tematiche sa che in verità l’italia andrebbe divisa con una linea obliqua, da sinistra a destra, che potremmo far coincidere con gli appennini.

Questa identifica come regioni più produttive: Lombardia, Emilia Romagna e Veneto. Inoltre esistono regioni che presentano forti gap interni. Questi pochi elementi che ho appena descritto dovrebbero essere sufficienti a sfatare il mito delle disparità fra Nord e Sud Italia, che appunto sono più arzigogolate di quanto venga descritto nei mass media.
Potremmo anche ritenere che essendo la scuola dell’obbligo mediamente uguale per tutti, eventuali disparità nelle conoscenze di base dell’economia andrebbero imputate al background culturale. Ma anche qui siamo di fronte a delle ipotesi».

Quali sono, secondo lei ed EconomiaItalia, i motivi che si celano dietro le scarse posizioni ricoperte  dall’Italia nella classifica sulla diffusione di cultura economica ed imprenditoriale tra i  paesi membri dell’Unione Europea? 

«Ricollegandomi a quanto detto prima, ritengo che una delle ragioni della scarsa qualità delle competenze economiche italiane sia da imputare all’istruzione, questa è la chiave di tutto per comprendere anche il mancato sviluppo italiano. Senza istruzione di qualità abbiamo un paese fortemente in affanno, incapace di dare gli strumenti alla cittadinanza per scelte economiche consapevoli»

Secondo lei l’impatto dei social network ha una qualche responsabilità su tutto questo  oppure, al contrario, potrebbe invertire la rotta? E nel caso, attraverso quali metodi? 

«Temo che i social diano spazio a molti scammer, ovvero persone che approfittano dell’ignoranza altrui. Infatti con l’avvento dei social è esplosa la mania degli schemi piramidali e ponzi attorno a strumenti finanziari complessi. Poi certamente esistono realtà estremamente serie che utilizzano i social per diffondere una corretta informazione finanziaria, ma rappresentano una minoranza».

Stando ai dati di novembre 2021, l’industria italiana avrebbe registrato il livello più  alto di crescita rispetto alla media UE. Secondo l’Istat la produzione industriale italiana  sarebbe cresciuta più delle attese, assestando un +6,3%, quando invece il dato di  crescita del mercato stimato era del +3,7%. Secondo lei quali sono i principali fattori di  crescita? Il Governo Draghi che meriti avrebbe in tutto ciò? 

«Quando un paese cade tanto poi rimbalza di conseguenza. I meriti del governo presieduto da Draghi sono a mio avviso da ricercare nella credibilità delle politiche del governo, più che nelle riforme che sono state portate avanti, come ad esempio si può leggere nei report delle agenzie di rating. L’impatto reale di queste riforme e del PNRR lo vedremo nel corso del tempo. Purtroppo in Italia non si ha ancora ben chiaro che lo stato non ha grandi poteri nel breve ma grosse responsabilità nel medio e lungo termine.

Lo vediamo con il bonus 110% che benchè nel breve abbia generato una serie di investimenti importanti, ora a distanza di un anno vediamo problemi nella supply e nel mercato delle materie prime. Questo già prima dello scoppio del conflitto fra Russie e Ucraina».

Secondo i dati Ocse del 2021, in tutti i Paesi europei, dal 1990 al periodo  immediatamente antecedente la crisi pandemica, il salario medio annuale sarebbe sempre aumentato. l’Italia, invece, sarebbe l’unico Paese europeo in cui i salari medi sono diminuiti rispetto a 30 anni fa. A cosa possiamo imputare questo dato negativo? 

«Le risposte a questo quesito sono molteplici ma tutte da imputare alla TFP, total factor productivity, che per farla breve altro non è che una stima della qualità del lavoro. Questo indice purtroppo è fermo dal 1970-1980 circa, e ci racconta che l’Italia non abbia colto il cambio tecnologico di quegli anni. Con il risultato che ad oggi siamo quella nazione che ad ogni crisi subisce uno dei contraccolpi più grandi. In buona sostanza quando gli altri crescono noi stiamo fermi e quando si entra in un ciclo economico avverso noi subiamo più dei nostri vicini di casa».

L’inflazione negli Stati uniti spaventa la Federal Reserve ed anche in Europa si è  rilevato un rialzo del tasso di inflazione nella quotidianità dei cittadini UE. In Italia, oltre l’inflazione in aumento bisogna affrontare anche un altro grande problema: il rincaro dei  prezzi dell’energia e il relativo aumento del costo di gas ed elettricità per i contribuenti  italiani. Quali sono i rischi, secondo EconomiaItalia, per l’economia nazionale e la produttività del nostro Paese e  quali, secondo lei, potrebbero essere le soluzioni concrete per affrontare questi due  problemi ed ottenere risultati sia nel breve che nel lungo periodo? 

«L’inflazione erode i salari fissi, che solitamente sono più diffusi nelle fasce più povere della popolazione. Chi pagherà caro l’inflazione del periodo invernale 21 e l’inflazione del recente conflitto, lo sappiamo qui in EconomiaItalia, sarà questa fascia. Quindi è importante andare a proteggerla in modo serio evitando scostamenti di bilancio per quanto possibile e riallocando la spesa pubblica, pena il dover ricorrere all’indebitamento per far fronte a queste problematiche.

Semplifico: in una fase di stretta monetaria, come quella annunciata dalla BCE, anche per far fronte alla crescita dell’inflazione, è fondamentale tenere sotto controllo il debito, altrimenti l’aumento dei tassi di interesse potrebbe far pagare caro un eventuale scostamento alle prossime generazioni.

Nel medio termine a mio avviso bisogna investire sia in rinnovabili, ma anche sul nucleare, magari non costruendo centrali in Italia, visti i tempi burocratici, ma entrando nel capitale di altre aziende europee già all’interno di questo settore. Se non si migliora il mix energetico purtroppo saremo sempre vincolati dalle dinamiche della politica estera. In queste settimane penso se ne siano accorti tutti. 

Concludo dicendo che la cosa più importante ora è trovare la quadra giusta affinché la crescita economica reale, ovvero al netto dell’inflazione, non si arresti e riesca a far fronte agli interessi sul debito. Avendo ben chiara questa equazione si capisce perfettamente quanto sia complicato rispettare queste condizioni. Purtroppo faccio notare come non esistano proiettili d’argento né geni della lampada per risolvere questi problemi. A mio avviso è necessario rivedere il recovery plan e adattarlo alle nuove necessità, che in verità sono vecchie.

Ma parliamoci chiaramente, se non siamo riusciti a comprendere che le scelte di lungo periodo sono fondamentali dopo una pandemia, dubito fortemente che la guerra in Ucraina possa farlo. A tutto ciò si aggiunge il fatto che l’Italia abbia sforato il PNRR per circa 30 miliardi, cifra che oggi ci farebbe comodo per ridurre a zero le accise sui carburanti».

La Redazione di Questione Civile

Ringraziamo Umberto Bertonelli per l’intervista concessa. Per saperne di più, vi invitiamo a visitare il sito EconomiaItalia

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