La politica americana del protezionismo: strategia geniale o catastrofe economica?
Il protezionismo è l’assetto distintivo della politica economica scelta dal neoeletto Presidente statunitense Donald Trump. L’imprenditore non è nuovo a tali scelte in materia di politica economica, che hanno caratterizzato anche il suo primo mandato, soprattutto nel biennio 2018-2019. A distanza di sette anni, i mercati internazionali si trovano a dover affrontare nuovamente le sfide derivanti da tale approccio commerciale, che in un’ottica di mercato globalizzato crea innumerevoli problematiche.
Breve storia del protezionismo: origini e affermazione
Il protezionismo è un tipo di politica economica che prevede un notevole intervento dello Stato all’interno dell’economia nazionale. Lo Stato che adotta una politica protezionista eroga aiuti pubblici ad alcuni settori, impone dazi doganali (anche molto elevati) per ostacolare la concorrenza di prodotti esteri, crea incentivi al consumo e premi per l’esportazione dei prodotti nazionali.
L’OMC, ossia l’Organizzazione mondiale del commercio, durante i primi anni duemila, aveva già espresso la sua reticenza verso l’uso eccessivo ed improprio dei dazi doganali e delle politiche protezioniste. Questo perché già ai tempi si trattava di scelte poco responsabili in un’ottica di economia sociale, concorrenza e libero mercato, nonché decisamente anacronistiche rispetto alle tendenze economiche del XXI secolo.
Il protezionismo affonda le sue radici nei periodi del mercantilismo e del colonialismo (XVII – XVIII secolo), durante i quali le principali potenze europee andarono incontro alla rivoluzione industriale e al rafforzamento delle industrie nazionali. Per molti economisti del tempo, primo fra tutti il tedesco Friedrich List, i dazi doganali erano elemento imprescindibile per lo sviluppo delle realtà industriali nazionali più deboli o addirittura inesistenti.
Il protezionismo americano e l’ascesa economica del Nuovo Mondo: un’economia da diciannovesimo secolo
Il presidente Donald Trump, da quando ha messo a ferro e fuoco le Borse di tutto il mondo, ha più volte sostenuto di starsi ispirando al modello proposto durante la cosiddetta “Gilded Age”, il periodo compreso fra il 1870 e il 1913, che a detta sua rappresentò il momento di massima ricchezza ed espansione industriale degli Stati Uniti. Durante quel periodo, i dazi doganali sfioravano quasi costantemente un tasso del 50%, con l’obiettivo di rilanciare l’economia nazionale.
Il professore K. Maskus, che insegna all’Università del Colorado, ha però sottolineato come non siano stati i dazi né la conseguente politica protezionista a favorire i nascenti Stati Uniti: i due fattori determinanti furono l’enorme flusso di manodopera internazionale a basso prezzo e il capitale a cui aveva accesso il paese durante quel periodo.
La retorica di Trump mira a convincere gli elettori che le scelte che sta portando avanti in materia di politica economica possano riportare gli Usa ad una condizione definibile come “età dell’oro”.
Il professore Andrea Colli, esperto di commercio internazionale e insegnante di Storia economica alla Bocconi, però è di altro avviso: sottolinea come attualmente il mondo si trovi in una situazione completamente differente rispetto a quella a cui si riferisce il presidente statunitense; Trump fa riferimento ad un periodo storico in cui tariffe del 40% portarono all’ascesa degli Usa e alla nascita di imprese che riuscirono a diventare dei colossi grazie al protezionismo.
Ad oggi, il livello di globalizzazione e di interdipendenza dei mercati nazionali è troppo elevato per poter ragionare nello stesso modo. Nel mercato globale una politica economica di questo tipo risulta anacronistica e repressiva della concorrenza e della competitività.
Trump e il protezionismo: una storia destinata a ripetersi?
Il 47esimo presidente degli Usa non è nuovo a scelte di politica economica che fanno discutere: già durante il suo primo mandato, nel 2018, Trump impose dazi generalizzati, che ebbero effetti disastrosi sull’economia americana. I dazi non colpirono i produttori esterni, bensì le imprese e le famiglie americane, che dovettero affrontare un vertiginoso aumento dei prezzi.
Il caso che ha fatto da cartina tornasole di come la politica protezionista possa causare immensi danni al tessuto economico odierno è sicuramente quello dei dazi del 2012, sulle lavatrici importate dalla Corea del Sud e dal Messico. I produttori reagirono spostando la produzione in Asia, attuando il cosiddetto “country hopping”, una pratica che permette alle imprese, fra le altre cose, di abbattere i costi di produzione e di non far ricadere il peso delle tassazioni sui prezzi dei prodotti e di conseguenza sui consumatori.
Con i dazi doganali imposti da Trump nel 2018, i prezzi delle lavatrici e non solo, aumentarono del 12%. Riportare negli Usa 1.800 posti di lavoro generò un costo di 1,5 miliardi, ossia 800 mila dollari per ogni lavoratore, tutti a carico dei contribuenti.
L’esperimento dei dazi fu una sconfitta per i consumatori statunitensi sotto ben due punti di vista: da un lato, con il massiccio calo delle importazioni si ridusse drasticamente la varietà di beni disponibili e dall’altro, quelli che riuscivano ad essere importati avevano dei prezzi elevatissimi. Gli economisti hanno stimato una perdita di welfare di circa 1,4 miliardi di dollari al mese: nel solo 2018 i costi totali hanno superato i 23 miliardi.
La conferenza stampa del 2 aprile 2025: il “Liberation Day”
La seconda presidenza Trump ha espresso molto chiaramente quelle che sono le sue intenzioni: riportare la produzione delle imprese negli Usa, ricorrendo anche alla pressione economica e finanziaria se necessario. Il 2 aprile 2025, durante una conferenza stampa, ha rinominato il giorno stesso “Liberation Day”, giorno in cui gli Usa si sarebbero “liberati” dalle ingiuste barriere al commercio imposte loro dagli altri Paesi: per farlo, il Presidente statunitense ha usato come punto di partenza il concetto di “reciprocità”.
Ciò non significa però che i dazi annunciati siano circa uguali a quelli subiti dagli Usa, ma la reciprocità di Trump si lega al deficit commerciale che gli Usa hanno rispetto a ciascun paese preso in considerazione. Questa logica è relativamente semplicistica ed esposta ad un soggettivismo interpretativo, in quanto assume che le cause del deficit commerciale statunitense siano interamente da attribuire alle barriere tariffarie e non tariffarie che gli altri paesi impongono agli Usa.
Sulla scia di questa politica, il 5 aprile 2025 sono entrati in vigore dazi base del 10% su tutte le importazioni, mentre il 9 dello stesso mese sono entrati in vigore dazi più elevati per ben 60 Paesi, considerati i “worst offenders” degli Usa, ossia i “peggiori trasgressori”: fra essi ovviamente sono state inserite l’UE e la Cina, con aliquote rispettivamente del 20% e del 54%. Fra i settori che preoccupavano di più vi era sicuramente quello automobilistico, con dazi del 25% su tutte le automobili di importazione.
Le conseguenze dell’annuncio di Trump e la paura della stagflazione
Il 3 aprile 2025, dopo l’annuncio del presidente Trump, i mercati globali sono crollati, favoriti anche da un generalizzato clima di sfiducia e incertezza fra gli investitori: Wall Street brucia 2.000 miliardi di dollari in una sola giornata, con perdite vertiginose anche per molti dei colossi quotati in Borsa, come Apple, Amazon, Nvidia, ma anche Google e Microsoft.
Fra gli economisti e gli esperti del settore è cominciata a dilagare una paura che fino a questo momento era rimasta negli anni ’70, ricordo della crisi petrolifera del 1973: una probabilità alta di stagflazione. La stagflazione è un fenomeno molto rischioso, che consiste in un mix fra inflazione alta e bassa crescita. Normalmente quando l’economia incorre in un periodo di inflazione, le banche centrali alzano i tassi per raffreddarla, ignorando momentaneamente la disoccupazione e la conseguente bassa crescita del PIL. Questo diventa molto difficile quando coesistono inflazione alta e stagnazione economica, perché le banche non possono contrastare uno dei due fenomeni senza alimentare l’altro, che si trova già al limite.
Il 9 aprile 2025, la situazione di panico diffuso e il crollo dei mercati azionari statunitensi hanno portato Trump ad annunciare una sospensione di 90 giorni dei dazi più alti.
Le conseguenze del protezionismo nel 2025
Ad oggi la situazione sembra essersi leggermente stabilizzata, anche grazie al dietrofront di Trump su alcune delle aliquote più alte (come per esempio i dazi sulla Cina, che avevano toccato quasi il 150%) e l’apertura al dialogo di molti Paesi. È legittimo però porsi le medesime domande di sette anni fa: quanto potrebbe costare questa politica, quanto potrebbe costare ogni posto di lavoro fatto rientrare su suolo nazionale statunitense? Non si tratta di una domanda semplice e le possibili risposte sicuramente non sono incoraggianti, in quanto le conseguenze andrebbero a ricadere su molti altri paesi.
Il protezionismo nel 2025 è più aggressivo, più pericoloso ed è sicuramente più costoso di quello dei secoli scorsi, perché ad oggi va ad impattare su mercati commerciali e azionari estremamente interconnessi. Per JP Morgan il rischio di recessione si attesta al 50%, con ricadute gravose specialmente per i consumatori e le imprese dei paesi che hanno maggiormente beneficiato della globalizzazione.
Mia Brogi per Questione Civile
Sitografia
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