Leggi positive ed arbitrarietà: il principio della phronesis aristotelica

Analisi delle Leggi positive in Aristotele

Dopo aver riportato alla luce nel precedente articolo (clicca qui) l’originalità del metodo aristotelico riguardo il diritto di natura e dei suoi legami con l’aspetto sociologico-antropologico, possiamo proseguire la nostra ricerca sulla concezione ed interpretazione del “diritto di natura” da parte del filosofo di Stagira.

Prestiamo, con questa occasione, particolare attenzione alle leggi cosiddette “positive”, ovvero sia le leggi scritte (da ius positum, “diritto posto”, a sua volta derivante da ius in civitate positum) e all’arbitrarietà del legislatore.

Detto questo, proseguiamo facendo un passo ulteriore nel processo di progressiva e graduale comprensione del pensiero aristotelico e della sua importanza in termini di contributo alla teoresi sul diritto di natura, tale per cui sarebbe opportuno considerarlo a tutti gli effetti, come vedremo al termine di questa lunga rubrica specialistica, il vero “padre della dottrina del diritto naturale”.

”Diritto nell’Antichità
– N.5
Questo è il quinto numero della Rubrica di Area dal titolo Diritto nell’Antichità, appartenente all’Area di Filosofia del Diritto

Le leggi positive come fonti del diritto

Tanto quanto Socrate, Aristotele è un convinto sostenitore delle leggi positive, riconoscendone, nelle sue opere, in maniera esaustiva la necessità, studiandone l’origine e riconoscendone l’autorità.

Questo andrebbe a contrastare un ulteriore elemento di critica dei moderni e dei contemporanei al giusnaturalismo classico, alquanto approssimativa, secondo cui il diritto di natura avrebbe una tendenza intrinseca alla disubbidienza nei confronti degli ordinamenti giudiziari e quindi delle leggi scritte.

Infatti, è necessario sottolineare che in Aristotele, per doverosa aderenza alla sua completezza teoretica, possiamo rintracciare tra le fonti del diritto, non solo la natura e l’osservazione della stessa, ma anche le leggi positive (scritte).

A tal proposito, egli parte dall’analizzare i limiti della scienza del diritto naturale, evidenziando il fatto che lo studio del diritto generalmente inteso non può essere una scienza (episteme), poiché essa presupporrebbe la certezza dei principi deduttivi da cui nasce la conoscenza necessaria per intraprendere lo studio stesso.

Su questo aspetto M. Villey sosteneva:

«Ma il giusto? Se avessimo accesso al piano del divino artigiano della natura, se possedessimo la formula che definisce l’essere dell’uomo ci sarebbe possibile dedurne conclusioni sicure. Ma non è questo il nostro caso. La natura è una sconosciuta, del cui segreto noi andiamo instancabilmente alla ricerca attraverso l’esperienza sensibile».

Per cui, dunque, il diritto naturale non può mai arrivare a porre leggi fisse e valide per sempre, perché proprio per la “natura” dell’oggetto della ricerca, ovvero che il diritto deve sempre adeguarsi a caratteri mutevoli, essa stessa appare inconcludibile e mai definitiva, i cui risultati perciò saranno sempre provvisori.

Nessuno ha mai sancito più nettamente di Aristotele questa semplice verità rilevabile nell’Etica Nicomachea, in uno dei passi più celebri dell’opera, in cui fornisce una definizione del diritto di natura, che è sommariamente riassumibile in questi termini:

«Alcune cose sono mutevoli per natura, altre non per natura. E per quanto entrambe siano mutevoli, tuttavia è facile distinguere quali delle cose suscettibili di mutarsi lo sono per natura e quali invece non lo sono per natura, bensì per legge e convenzione. E anche agli altri casi si adatterà la stessa distinzione. Ad esempio, per natura la mano destra è migliore, benché sia possibile a tutti divenire ambidestri».

Dunque, per l’autore il giusto naturale (dikaion) non può presentare la forma esplicita della legge scritta ed anche se nella Retorica il filosofo raccomanda agli avvocati di appellarsi alle leggi naturali (nómoi katà physin), queste sono da intendersi in senso metaforico, cioè di leggi non formulate, non messe per iscritto, al contrario delle leggi positive (nómoi àgraphoi).

I limiti dell’osservazione della natura

Alla luce di queste asserzioni, possiamo ulteriormente desumere che per Aristotele l’osservazione della natura non sarebbe in grado di condurre lo studioso ad alcuna soluzione concreta, quindi lo studio del diritto consisterebbe in una fase di elaborazione soltanto iniziale che ci fornisce un quadro di riferimento da cui partire (materia), ma che deve ancora ricevere una forma, affinché abbia completezza.

La teoria aristotelica, inoltre, come in parte quella platonica, ha fornito un contributo non indifferente alla riflessione sulla ragion d’essere delle leggi positive, infatti nella Retorica vengono avanzati due motivi che giustificano la redazione di leggi scritte.

In primo luogo, in una città si troveranno più facilmente legislatori prudenti, attenti e saggi piuttosto che una molteplicità di giudici dalle medesime caratteristiche, per cui è giusto e doveroso che in una società i cittadini migliori siano di guida agli altri.

In secondo luogo, lo stagirita giustifica la necessità di leggi scritte consigliando la diffidenza dall’imparzialità dei giudici, il cui giudizio può essere deformato da simpatia o da timore, dunque il legislatore, al contrario, sarebbe relativamente al sicuro da queste deviazioni.

Dunque, i principi del diritto naturale appaiono come generici, talvolta vaghi, tali per cui non sono sufficienti a fornirci opportune soluzioni giuridiche, tanto da giustificare la necessità dell’intervento non solo degli studiosi del diritto, ma soprattutto dei giudici e dei legislatori.

La genesi delle norme giuridiche

Per di più, il pensiero aristotelico ha dato ampio spazio finanche alla genesi delle norme giuridiche, partendo innanzitutto dalla assoluta incertezza su chi debba avere l’autorità di porre le leggi: essendo permeata dall’impronta prettamente relativistica, la teoresi aristotelica, a differenza di quella platonica, non fornisce una posizione definitiva su chi debba legiferare, poiché ci sono città in cui il potere deve essere posto nelle mani di un’oligarchia, in altre è preferibile che sia in mano ad un regime democratico ed in altre ancora monarchico.

Inoltre, per Aristotele il potere legislativo, o quello giudiziario, viene detenuto da colui che in una città si trova per le sue stesse condizioni e circostanze ad essere responsabile dei pubblici affari, in quanto chi detiene il potere lo detiene per natura, non deve detenerlo per il voto della maggioranza: alla luce di questa sintesi teorica, si può notare la totale assenza, nel pensiero aristotelico, degli assunti di base della teoria del contratto sociale.

Appare chiaro, però, che l’opera del legislatore o del giudice, che dagli indefiniti principi del diritto naturale debbono trarre norme o sentenze positive, non è basata sul lavoro dell’intelligenza, che sarebbe insufficiente e per certi versi soltanto un mezzo attraverso cui poter giungere ad una precisa declinazione in termini normativi, bensì è basata sulla volontà.

Quindi la legge, alla fine, nonostante gli studi sul giusto naturale per valutarle e sintetizzarle in una linea concreta di azione legislativa, non risulta altro che il prodotto di scelte arbitrarie di colui o coloro che hanno il potere di esercitare la propria volontà per decidere la sostanza degli ambiti giuridici considerati e la forma stessa della legge.

Leggi positive e arbitrarietà del legislatore: il principio della “prudenza”

Poiché gli studi sul diritto naturale non vengono applicati dal legislatore o dal giudice, i quali sono chiamati a scrivere norme o emanare sentenze, allora appare chiara la posizione dell’autore quando nell’Etica Nicomachea sostiene l’impossibilità di conoscere anticipatamente il contenuto del giusto legale e quindi del giusto positivo, poiché esso dipende dalla decisione arbitraria del legislatore.

Certamente, però, la volontà di chi ha il potere di scegliere il contenuto e la forma delle norme non è slegata da vincoli procedurali o di metodo, poiché anche se l’intelligenza e la dialettica non sono sufficienti, rimane il fatto che, per Aristotele, la legislazione e la giurisprudenza debbono essere portate avanti con prudenza (phronesis), considerata la virtù intellettuale per eccellenza, che permette di decidere su situazioni contingenti, senza avere né il tempo né il modo di fornire delle ragioni.

Questa risulta essere la virtù per antonomasia che deve pervadere la linea d’azione sia del giudice che del legislatore, i quali stabiliscono che cosa è il diritto in base alle circostanze particolari. La prudenza risulta essere sia legislativa che giudiziaria: questo è uno dei motivi per i quali i Romani, successivamente, svilupparono il concetto di iuris prudentia (giurisprudenza).

Ma non solo! Essa deve essere applicata anche alla politica in quanto «la politica e la prudenza hanno la stessa disposizione», cioè affinché l’uomo politico (zoón politikón) persegua gli interessi della comunità che è chiamato ad amministrare, deve agire secondo la virtù della phronesis.

La volontà come veicolo del diritto naturale

D’altra parte, però, la decisione arbitraria del legislatore porta a determinare con minor grado di inequivocabilità il giusto naturale, tale per cui si può affermare con certezza che nella teoresi aristotelica la volontà presenta una duplice finalità, sia quella di determinare la norma scritta ed il suo contenuto, sia quella di portare a conclusione e completamento, seppur parziale, la ricerca del giusto naturale.

La volontà porterebbe a conclusione la ricerca del giusto naturale perché, altrimenti, essa non conoscerebbe mai fine, in quanto mutevole e per principio non definitiva (quantomeno dal punto di vista dell’umano).

Senza la volontà del legislatore o del giudice si finirebbe per non trovare mai delle soluzioni alle controversie giudiziarie o alla regolamentazione dei rapporti tra i cittadini, tale da generare potenzialmente una stasi sul piano legislativo e giudiziario dando vita ad un irrecuperabile disequilibrio sociale oltre che disarmonia tra i cittadini, i quali incapperebbero facilmente nell’errore di ricorrere alla giustizia privata, in un domino distruttivo per l’esistenza stessa delle comunità sociali.

Contestualmente, la volontà porterebbe, come accennato prima, anche ad una più approfondita determinazione del diritto naturale, nonostante questo non avvenga in maniera completa, nelle varie fattispecie concrete che le norme scritte si trovano a regolare e che dovrebbero essere sottoposte, per via della loro specificità, segnatamente all’arbitrarietà del legislatore, in quanto la scienza giuridica non sarebbe in grado di giungere a delle conclusioni accettabili in tempi ragionevoli.

In entrambi i casi, quindi, si evince la necessità della volontà del giudice e del legislatore a completamento e ad estensione, seppur parziale, del diritto naturale.

Da questa prospettiva, è possibile scorgere la duplice fonte del diritto: da una parte la natura, dall’altra la convenzione, poiché, in accordo con la dottrina aristotelica, il legislatore parte dal giusto naturale e procede aggiungendo a questo un qualcosa di scritto, in base alla sua propria volontà, per renderlo completamente giusto, o quantomeno per renderlo tendente al giusto per natura.

Alessio Costanzo Fedele per Questione Civile

Bibliografia

Parte degli articoli pubblicati nel presente archivio sono estratti del mio lavoro sperimentale dal titolo “Lo Stoicismo giuridico di M. T. Cicerone”, che rientra nell’area scientifico-disciplinare della filosofia del diritto, completata il 20 marzo 2020.
Uno dei principali testi che ho adottato per la ricerca, lo studio e la stesura del lavoro è “La formazione del pensiero giuridico moderno” (1986, Editoriale Jaca Book spa, Milano) di M. Villey.

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