Bisogna saper chiedere? Solitudine con e senza COVID

“Marco se n’è andato e non ritorna più” era diventato il ritornello di ogni gita in montagna per la gioia della mia famiglia che sentiva me e la mia amica Chiara canticchiare per superare curve e tornanti.

Il povero Marco però aveva lasciato la Pausini a causa di un padre (definito) crudele che si era trasferito per lavoro. Non aveva fatto ghosting né tantomeno era in quarantena causa COVID. Non era un Hikikomori, una persona che sceglie volontariamente il ritiro dalla società e non aveva optato per la didattica a distanza.

Dagli adolescenti agli adulti, mi chiedevo se il COVID fosse responsabile dell’isolamento sociale o se avesse esacerbato una tendenza che si acuiva con il passare degli anni. Quanto la solitudine fosse imposta o agognata. Solitudine ragione di vita o buon motivo per morire?

Letteratura e filosofia avevano spesso sottolineato come “L’inferno sono gli altri” (Sartre).

“Huis clos” (a porte chiuse) di Jean-Paul Sartre

Dunque, meglio soli che accompagnati?

La ricerca della solitudine

Tanti amici e conoscenti (in salute) avevano dichiarato che il primo lockdown era stato una vera pacchia: niente obblighi sociali, niente clienti che “avvocato ce la facciamo prima di Pasqua?” (detto il venerdì santo), niente grigliatone di Pasquetta con l’amica tuttologa, niente guidatori arrabbiati persino il sabato mattina al supermercato. Solo una piacevole solitudine.

Dunque, il tanto odiato COVID ha portato quella beata solitudine a cui tanti ambivano?

Abbiamo avuto bisogno di una pandemia per riscoprire il valore del silenzio? La pace e la quiete? La solitudine quella benefica?

I dati sugli effetti psicofisici del confinamento da COVID non trasmettono tutto questo ottimismo.

Isolamento (condizione oggettiva) e solitudine (condizione soggettiva) sono associati ad un aumentato rischio di sviluppare o peggiorare deficit nel sistema immunitario, malattie cardiache, ipertensione e disturbi neurocognitivi (per esempio, demenza; Matias e colleghi, 2020).

Le stesse due condizioni sono considerate fattori di rischio per la salute e per la mortalità alla pari dell’obesità, del fumo e della scarsa attività motoria (Holt-Lunstad e colleghi, 2017).

Perché vogliamo essere soli?

Scegliamo di stare da soli, veniamo abbandonati o ci sentiamo in dovere, come predica sempre la mia amica Chiara, forse influenzata dalla Pausini, di dover dimostrare che sappiamo fare tutto da soli? A che prezzo? E perché poi? Che c’è di male nel dimostrarci deboli e nel chiedere aiuto?

Con il COVID ho visto gente, in salute ma magari in quarantena preventiva, che piuttosto che chiedere a qualcuno la spesa, sarebbe morta di fame. Ho visto intere gerarchie familiari ribaltate con persone che, per ricevere aiuto, facevano ricorso ad estranei totali piuttosto che agli amici.

È davvero più facile affidarsi agli estranei? Abbiamo così tanta paura di essere vulnerabili? Se sono davvero amici, potranno mai utilizzare la nostra fragilità o un momento di debolezza contro di noi?

Forse la questione è diversa: forse, se non lo dico a nessuno, il problema non esiste. Allora la solitudine ricercata è sinonimo di paura, di non voler vedere, di mettere la testa sotto la sabbia. Chiedere aiuto, però, non significa avere un deficit, un vuoto. Chiedere aiuto non significa non saper stare in piedi da soli.

E poi mi chiedo… tutto questo vantarsi di essere autonomi, indipendenti, di non avere bisogno di nessuno non è, al contrario, la dimostrazione di un ego ipertrofico? Quanto può essere esacerbato questo concetto, fino a quali estremi lo possiamo portare?

Marco Aurelio scrive:

 “In nessun luogo più tranquillo e calmo della propria anima ci si può ritirare; […] concediti quindi questo ritiro e in esso rinnovati”.

La statua di Marco Aurelio in Piazza del Campidoglio a Roma

Come la pandemia ha cambiato la nostra vita

Lo spazio dentro di noi, però, deve essere costruito ad hoc, se no si cade nel rimuginio, nel pensiero ossessivo, nella depressione e lo spazio tutto è fuorché ristoratore. Diventa un tunnel, un incubo.

Peraltro, ho sorriso quando ho letto l’incipit della frase di Marco Aurelio: “Alcuni cercano di ritirarsi fra i campi, al mare”.

Quanti ne ho visti partire per il Cammino di Santiago alla ricerca di se stessi. Grandi meditatori alla ricerca dell’illuminazione sulle scintillanti vette del Nepal, filosofi che si isolavano a riflettere in fari di ameni luoghi marittimi.

Il cammino di Santiago

Mi dispiace, ho sempre pensato che senza tanti fronzoli, senza tante dichiarazioni pubbliche, senza annunci a parenti e amici, ci si possa ritrovare a Carugate come a Valguarnera Caropepe.

Viaggiare rende svegli, ma se parti sciocco, torni sciocco”, diceva Hugo Pratt. Vuoi mettere però tornare sciocchi con tutta questa bella cornice e le giustificazioni interiori ed esteriori? Vuoi mettere tornare sciocchi e vedere lo sguardo ammirato degli altri sciocchi?

Per alcuni il discriminante è tra solitudine imposta e solitudine cercata. Il COVID impone, il cammino di Santiago te lo cerchi. In realtà, Seneca insegna che non tutti possono stare da soli poiché molti di noi sono pessimi compagni per se stessi. Non solo chi si guarda dentro e vede qualcosa che non apprezza però, anche chi si guarda dentro e fa finta di niente. Chi, nel non confrontarsi con gli altri, trova una scusa per darsi ragione e assolversi.

Siamo soli quando siamo vuoti? O siamo soli quando siamo scollegati da noi stessi? Possono gli altri aiutarci a riconnetterci con noi stessi? O li evitiamo perché in realtà sono scomodi?

Le neuroscienze ci raccontano che la solitudine ha effetti negativi sul nostro cervello: nelle persone che la sperimentano, infatti, il default network è più connesso e vi è più materia grigia nelle regioni cerebrali associate. (Spreng et al., 2020, The default network of the human brain is associated with perceived social isolation, Nature Communications, 11, 6393).

Peccato che questa zona del nostro cervello sia adibita ai pensieri automatici e a quel continuo andare dal passato al presente, senza sosta, che tanto ci danneggia perché scatena emozioni quali rabbia, tristezza e preoccupazione, impedendoci di stare nel qui e ora. L’unico momento che possediamo realmente.

Lo psicanalista Winnicot, autore de “La capacità di essere solo”, afferma che l’adulto che è in grado di stare da solo è colui che ha sperimentato la continuità dell’esistenza di una madre affidabile. Dunque, io so stare da solo se so che posso fidarmi degli altri, se so che c’è una continuità nell’esserci al di fuori di me.

Si è un po’soli nel deserto, disse il piccolo principe. Si è soli anche con gli uomini, rispose il serpente” (A. de Saint’Exupery).

È questo quello che abbiamo sperimentato, quindi, con il COVID?

Che nessuno ha dimostrato continuità al di fuori di noi? Siamo così sfiduciati nell’altro da rinunciare a priori ad una richiesta di aiuto?

Siamo soli per sfiducia?

Viviana Capurso per Questione Civile – XXI

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