La storia in una foto: intervista a Tony Gentile

Tony Gentile

In relazione al progetto NO-MAFIA, Noemi Ronci (N. R.) e il direttore Alessio Costanzo Fedele (A.C.F.) hanno intervistato Tony Gentile (T. G.), fotoreporter palermitano, autore dell’iconica fotografia ai giudici Falcone e Borsellino.

N. R. Che cosa rappresenta per lei effettivamente la famosa fotografia di Falcone e Borsellino e cosa le suscita dopo trent’anni?

T. G. Rappresenta quello che rappresenta per tutti: l’amicizia, la complicità di due uomini, che compiono un gesto potente perché semplice. Quando scattiamo una foto, a volte cerchiamo cose complesse, invece la forza della semplicità è proprio quella di arrivare a tutti. Inevitabilmente rappresenta anche il dolore per due persone che sono morte e quindi che sono state sconfitte: essendo due persone che non ci sono più non possiamo non pensare al fallimento dello Stato. Forse anche i mafiosi che li hanno uccisi hanno a casa questa foto, la quale suscita in loro sentimenti ben diversi. È una fotografia che sta al centro di questi due piani, è una foto molto complicata in questo senso.

Inoltre, è una foto che mi ha causato tutta una serie di  problematiche sia legate alla questione del diritto di autore, sia al peso di questa foto rispetto a tutte le altre foto che ho scattato. Da una parte è positivo, ma dall’altra anche negativo. È un’etichetta da cui è difficile liberarsi. Questa fotografia, riprendendo il titolo del mio ultimo libro, è “luce e memoria”, bianco e nero, rispecchiando tutte le contraddizioni della Sicilia, il mondo che li ha uccisi, che li stava dimenticando prima che li uccidessero e che se ne ero ricordato subito dopo.

Quella sera penso di aver fatto un bel ritratto dei due, anche perché cercavo qualcosa di loro due insieme. Ma era buono per quella sera, per lo scopo prefissato per quella serata. Non potevo immaginare quello che sarebbe successo a distanza di pochi mesi; quindi, sarebbe stato difficile immaginare l’esito di questa foto. Anche perché sarebbe stato abbastanza brutto pensarlo. Quello che è successo dopo ha portato in maniera naturale le persone a adottare questa immagine per tutti gli scopi per cui è stata utilizzata, prima velocemente, poi lentamente e infine per lungo tempo. Come quando nei libri si parla di best-seller e long-seller, credo che questa sia una fotografia “a lungo tempo”, che avrà una durata nel tempo molto molto lunga e questo, quella sera, non lo avrei mai potuto immaginare, pur sapendo perfettamente che avevo fatto una buona foto dei due, che non erano lì per caso, ma erano proprio l’obiettivo del mio interesse.

N. R. Effettivamente sì, l’immagine di un secondo è poi diventata l’immagine di un’epoca, un’epoca tristemente famosa sotto molti punti di vista. Noi, a distanza di trent’anni, guardiamo quella immagine e possiamo soltanto immaginare cosa significasse in quel periodo. Quindi, per qualcuno che come lei ha vissuto direttamente quegli anni da siciliano, ci domandavamo: come si fa a spiegare la Sicilia di quegli anni a noi giovani?

T. G. Questo è abbastanza difficile, perché la Sicilia di quegli anni era una Sicilia di cui si dicevano cose molto brutte, ovvero che eravamo tutti mafiosi, che la che la mafia stava soltanto lì e invece non era vero neanche questo. Era quindi una Sicilia in cui si viveva abbastanza male da questo punto di vista. La Sicilia è bellissima, la Sicilia è una terra piena di cultura e piena di tradizioni, dotata di bellezze straordinarie come le nostre città. Palermo e Catania, ad esempio, sono città stupende, piene di storia assurda più di altri luoghi dell’Italia e del mondo. La storia che ha attraversato la Sicilia è straordinaria, a partire dalle persone che ci hanno vissuto negli ultimi tempi, basterebbe semplicemente citare Falcone, Borsellino, Chinnici e poi Leonardo Sciascia, Pirandello… ma ne vogliamo parlare?

Dunque, sulla Sicilia straordinaria e grandissima non ci sono dubbi, ma il dato di fatto certo è che in quegli anni la Sicilia era etichettata solo per qualcosa di brutto e questi anni noi siciliani li abbiamo vissuti tutti sulla nostra pelle: abbiamo vissuto il rischio di essere coinvolti in una sparatoria, il rischio più grande di essere coinvolti in una in una strage. Se pensiamo a via D’Amelio, in cui i palazzi sventrati sono un vero e proprio scenario di guerra, all’interno di una di quelle case sventrate c’era un asilo nido, frequentato da bambini. Dobbiamo pensare che se la strage fosse avvenuta non di domenica, ma in un giorno feriale e non in un giorno estivo (cosa del tutto possibile) sarebbero morti diversi bambini.

Quindi questa era Palermo, un posto dove il rischio di finire coinvolto in un fatto violento era altissimo, il rischio di finire coinvolto all’interno della mafia, cioè di prendere la strada sbagliata era altissimo perché il confine tra la legalità e illegalità è una linea sottilissima, che è facilissimo superare. Quindi in questo scenario di Palermo di quegli anni io ero un giovane fotoreporter che si trova a raccontarlo, lo racconta con un sentimento che non è soltanto quello dell’inviato, del fotografo che va adesso in Ucraina a raccontare la guerra, ma poi dopo due o tre settimane torna a casa e quindi racconta ma non vive la storia profondamente. Io ero uno che viveva lì, che partecipava da ragazzo alle manifestazioni antimafia, che aveva vissuto dentro un mondo di politica giovanile attiva nei confronti di determinate tematiche; quindi, queste cose le vivi con una passione in più, con una spinta maggiore: ecco questo è un po’ il quadro. Dunque, quando ti trovi a Capaci a calpestare l’autostrada sventrata o in via D’Amelio a calpestare quello che restava dei corpi degli agenti e di quelli che sono stati coinvolti, tutto ha un peso diverso, ha una pesantezza maggiore.

N. R. Quella del reporter è proprio una forma d’arte e praticarla da persona che ha vissuto quelle cose deve essere notevole.

T. G. Vorrei dire che se si fa quel lavoro che io ho fatto in quegli anni, l’ultima cosa a cui pensi è l’arte.  Pensi che devi raccontare quello che sta succedendo, per tutte quelle persone che non sono lì e che non possono essere testimoni e soprattutto per quelle persone che dicono che la mafia non esiste, che è soltanto  un’invenzione giornalistica. Ci sono voluti tanti anni, c’è voluto il lavoro di Letizia Battaglia e Franco Zecchini per far capire che la mafia veramente c’era e non era un’invenzione giornalistica, ci sono voluti tanti anni perché si arrivasse a questa consapevolezza. Il fotografo o meglio il giornalista, perché io sono un giornalista, che racconta attraverso immagini e non attraverso le parole scritte, racconta esattamente questo: racconta la realtà perché qualcuno possa riconoscerla. Tutto questo senza pensare all’arte, anzi non pensandoci proprio all’arte. Poi chiaramente ognuno di noi racconta con il proprio occhio, con il proprio sentimento, con il proprio istinto.

N. R. Di fatto è un atto politico. Viene da chiedersi: da quegli anni quanti passi avanti abbiamo fatto? È ovvio che se anche qualcosa è stato fatto, tanto ancora c’è da fare. Secondo lei quanto ancora dobbiamo andare avanti per risolvere i problemi della legalità e quali sono secondo lei i problemi odierni della legalità e dell’illegalità?

T. G. Guarda secondo me il problema più grande, che non è facilmente risolvibile anzi conoscendo un po’ il territorio credo che sia veramente difficile da risolvere se non impossibile, è proprio il livello di cultura mafiosa che sta alla base di tutto. Noi possiamo pure combattere con i magistrati, con la polizia e le forze dell’ordine la criminalità, quella più pericolosa, ma il nostro vicino di casa che con fare mafioso attua comportamenti arroganti no.

Faccio un esempio, tratto dal mio libro: in una spiaggia di Palermo c’è un muro di cemento armato che arriva a un metro dall’acqua del mare e dietro c’è una palma, la quale fa intuire che ci sia un posto bello, un giardino, un’oasi. Questa situazione era tale già negli anni ’90, quando l’ho fotografata, ed è realissima anche adesso perché ho rifatto lo stesso scatto sei mesi fa, essendo tornato proprio per vedere se qualcosa fosse cambiato. Questa persona che decide di costruire un muro, togliendomi la possibilità di andare in spiaggia, appropriandosi di qualcosa che è di tutti, è un pezzetto di mentalità mafiosa, di cultura mafiosa. Questo atteggiamento è più difficile da estirpare perché è talmente diffuso e radicato che se tu pure non sei un mafioso affiliato vero e proprio, ma hai questa mentalità, metti in atto un comportamento criminale. Sono molti ad avere quest’idea del potere, questa arroganza. Secondo me la parte più difficile è quella educativa. Bufalino diceva che la mafia si sconfigge con i maestri, con un esercito di maestri elementari: è vero, anzi verissimo ed è l’operazione più difficile perché io posso anche avere un bravissimo maestro elementare, ma se quando torno a casa ho la mia famiglia che ha una mentalità mafiosa, che vive di contrabbando, che vive di abusivismo è comunque più facile che io cresca seguendo l’idea della famiglia piuttosto che l’idea del maestro. Quindi ci vorrebbero “più maestri che genitori” perché sono genitori che fanno più male dei maestri.

Sul fronte della lotta alla mafia onestamente dagli anni ‘90 è cambiato tantissimo e oggi si denuncia, oggi le associazioni contro il racket sono molto più attive di prima e anche se manco da Palermo da tanti anni posso dire con certezza che c’è un’atmosfera totalmente diversa, anche se persiste sotterranea quella cultura di cui abbiamo parlato prima. Persiste, c’è poco da fare. Possiamo raccontarci quello che vogliamo, possiamo guardare le strade belle e il centro storico, tutto quello che vogliamo, ma quella cultura mafiosa permane. In tutti i casi non bisogna mollare mai, bisogna sempre tenere la barra dritta e percorrere la strada giusta attraverso la memoria e il ricordo di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato.

Memoria non solo dei grandi come Falcone e Borsellino, ma anche di quelli piccoli, le vittime totalmente innocenti. Io nel mio libro ho citato una bambina di cinque anni, Caterina Nencioni, uccisa a Firenze con la sua famiglia durante la strage in via dei Georgofili, insieme alla mamma, al papà e alla sorella. Lei non era siciliana, non si trovavano a Palermo, tutto avrebbe potuto immaginare quella piccola e tranquilla famiglia tranne che di fare questa fine perché un gruppo di criminali siciliani un giorno aveva deciso di mettere una bomba lì. Ecco, quindi, insieme a Falcone e Borsellino, che vanno tenuti in considerazione per l’importanza delle cose che hanno fatto, ci sono quindi altri magistrati, altri poliziotti uccisi e ci sono le persone innocenti, come i due bambini con la mamma a Pizzolungo quando hanno fatto l’attentato al giudice Palermo, che passano casualmente da lì: esplode la bomba e questi muoiono; non muore il giudice, si salva il giudice, ma vengono coinvolte persone che non c’entrano nulla, le cosiddette vittime collaterali. Cito i bambini perché c’è una visione un po’ romantica, un po’ cinematografica che vuole farci credere che la mafia, una volta, era qualcosa che aveva un onore e che questo onore lo manifestava nel non uccidere e toccare i bambini, le donne e così via. È una grande stupidaggine, non è vero, perché bambini uccisi dalla mafia sono stati tantissimi, in tanti anni non adesso recentemente, ma in tutta la storia.

Quindi le cose sono cambiate? In parte sì e in parte no, ma bisogna essere sempre preoccupati, non solo in Sicilia, ma anche in Valle d’Aosta, in Trentino, in Lombardia perché è arrivata anche lì. Quindi bisogna fare attenzione all’imprenditore con cui si fa affari, perché inconsapevolmente si potrebbe alimentare il fenomeno mafioso.

N. R. È comune l’idea che la mafia sia un qualcosa che riguarda “gli altri”, gli intellettuali, le persone impegnate; invece, la mafia è proprio quella che si combatte con l’educazione. Di certi maestri ci sarebbe bisogno per tutta la vita.

T. G. Mi capita spesso di incontrare giovani o giovanissimi e l’esempio che io faccio loro quando provo a fargli capire qual è questa cultura mafiosa di cui abbiamo parlato è il comportamento che loro adottano ogni volta che fanno un video ad un amico mentre lo bullizzano, mentre lo picchiano e poi lo mettono sui social. I ragazzi dovrebbero capire che questo è il loro livello di mafiosità in quel momento e che può andar via via sempre crescendo. Noi cerchiamo di far capire loro che per ogni fascia di età c’è un livello di mafiosità e che se si ferma subito si evita di arrivare allo step successivo.

A.C.F. Tra trenta o quaranta anni, quando non ci saranno più testimoni diretti di questi fatti come Rita Borsellino, chi si farà portatore di tutti questi principi?

T. G. È un po’ quello che succede con l’olocausto: chiaramente finiscono i testimoni dell’olocausto e infatti si vede che il fenomeno nazifascista prende sempre più piede. Quello che stiamo dicendo lo diceva anche Peppino Impastato, quindi sono questioni che avremmo dovuto già risolvere; invece, noi continuiamo a parlare delle stesse cose di cui parlava Impastato. È importante educare alla bellezza, perché se io vengo educato all’arte, alla bellezza, alla scrittura, alla consapevolezza è ovvio che ho qualche strumento in più per difendermi dalla cultura della mafia. Io apprezzo molto le parole di Falcone quando dice che la mafia è un fenomeno umano e in quanto fenomeno umano è destinato a finire, ma le apprezzo come segno di necessaria speranza perché sono consapevole che le parole di Falcone erano dette per la necessità di dare speranza, ma non credo che lui credesse profondamente a questa idea, infatti proprio perché è un fenomeno umano secondo me nell’uomo esiste la parte sana e la parte cattiva, da sempre, altrimenti non ci sarebbe una guerra in questo momento in atto. Io non credo che la mafia sia un fenomeno destinato a finire proprio perché è un fenomeno umano: magari un giorno la chiameremo diversamente, si trasformerà, non sarà più violenta come lo è stata trent’anni fa.

N. R. Come fatto umano, appunto, potrebbe essere limitato dagli umani lavorando con l’istruzione. Prima pensavo ad un fatto indicativo: in quest’anno così importante per gli eventi di cui stiamo parlando, tra i temi di maturità non c’è stato assolutamente nessun cenno a quegli eventi, alla mafia. Non è stata data la possibilità ai ragazzi di fermarsi a riflettere su cosa è stato, nell’anno di un anniversario così importante. Nessuno si è detto sorpreso di non aver trovato questo tipo di traccia.

T. G. Sono d’accordo anche io, è stata una mancanza enorme, soprattutto in virtù del fatto che appena un mese fa il Ministro dell’istruzione era a Palermo a “festeggiare” il trentesimo anniversario dalle stragi. Che nessuno si sia ricordato nell’arco di questo mese di questo trentesimo anniversario, che è retorico perché trent’anni è uguale a ventinove che è uguale ad un qualsiasi altro numero, significa che il Ministero dell’istruzione non ritiene opportuno lasciare un segno educativo questo in questo senso.

N. R. Avrebbe qualche consiglio per chi oggi volesse intraprendere la carriera da fotoreporter?

T. G.  Posso dire di cambiare idea, di andare da un’altra parte, di cercare di trovare un lavoro vero perché questo diciamo non è più un vero lavoro, una vera professione. Io ho fatto una professione per più di trent’anni e l’ho fatto perché mi piaceva, perché amavo quel tipo di lavoro, proprio quello specifico tipo di lavoro che io ho avuto la fortuna di fare sempre. Quello che io amavo era giornalismo di news, di attualità, veloce e rapido. Oggi per un giovane fotografo che ha questo tipo di passione le prospettive non sono come quelle che io ho avuto fino a trent’anni fa: c’erano dei giornali che avevano dei fotografi nel loro staff, c’erano delle agenzie di stampa che avevano i loro fotografi. Oggi questi non ci sono più. In alcuni giornali non ci sono più nemmeno i giornalisti, figuriamoci i fotografi. È un mondo in cui le prospettive di stabilità sono molto basse, è un lavoro molto precario. È difficile consigliare ad un giovane appassionato di fotografia di avviarsi lungo questa strada. Ma in tutti i casi se è qualcosa che davvero si vuole fare, allora va fatta: bisogna essere predisposti al sacrificio, alle sofferenze, ma va fatto. È un lavoro duro, faticoso, sempre fuori, è un lavoro complesso, ma bello. Come i miei colleghi posso dire di non aver mai lavorato un giorno, perché ho sempre fatto quello che mi piace. Credo profondamente nell’utilità, soprattutto educativa, di questa professione. Magari bisogna porsi dei limiti temporali, una fascia d’età oltre la quale rendersi conto che se si è ancora precari forse è meglio cercare un’altra strada.

Ringraziamo Tony Gentile per la disponibilità e per l’importantissima testimonianza che ci ha reso.

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