Il CECOT di Bukele: sicurezza o show mediatico?

CECOT

Il centro de confinamiento del terrorismo (CECOT): un inferno senza uscita

Il CECOT ovvero il modello carcerario imposto dal Presidente Nayib Bukele, ha trasformato il Paese centroamericano, riducendo drasticamente la criminalità. Ma a quale prezzo? La comunità internazionale si interroga sulle conseguenze di una strategia che divide l’opinione pubblica.

Un carcere costruito per governare

Nel febbraio 2023, il presidente di El Salvador Nayib Bukele ha inaugurato il CECOT (Centro de Confinamiento del Terrorismo), una delle carceri più grandi e blindate al mondo. Con una capacità di 40.000 detenuti, il mega-carcere rappresenta il culmine della strategia di sicurezza che ha trasformato El Salvador da uno dei Paesi più violenti dell’America Latina a uno dei più sicuri.

Le immagini ufficiali dell’apertura del CECOT sono diventate virali: migliaia di uomini rasati, tatuaggi delle gang ben visibili, ammassati e costretti a correre a testa bassa sotto lo sguardo delle guardie armate. Per Bukele, è il simbolo della tolleranza zero contro MS-13, Barrio 18 e il crimine organizzato. Ma per molti analisti, è anche un’opera di ingegneria politica: sicurezza reale o semplice show mediatico?

Il CECOT ha eliminato la criminalità

Il CECOT è il pilastro della retorica politica di Bukele. Lanciato nel pieno dello stato di emergenza decretato nel 2022, la struttura è pensata per tenere in cella migliaia di persone senza bisogno di processi formali. Secondo dati ufficiali, oltre 75.000 persone sono state arrestate in meno di due anni, spesso senza prove concrete, grazie a leggi straordinarie che hanno limitato diritti costituzionali come lhabeas corpus[1]. L’assenza di riabilitazione è un tratto distintivo del carcere: niente finestre, niente contatti con il mondo esterno, nessuna possibilità di appello. Un modello punitivo che si avvicina più ai gulag che ai moderni sistemi carcerari occidentali.

Ma funziona? Secondo il governo sì: El Salvador è passato da essere il Paese con il più alto tasso di omicidi al mondo (103 per 100.000 abitanti nel 2015) a meno di 2 per 100.000 abitanti nel 2024. Il crimine è crollato, le estorsioni quasi azzerate. Eppure, il costo di questa sicurezza è altissimo. Oltre ai presunti membri delle gang, sono stati incarcerati giornalisti, oppositori politici e perfino adolescenti con tatuaggi sospetti.

CECOT vs modelli europei: repressione o rieducazione?

Il carcere CECOT rappresenta un modello punitivo estremo, che si discosta profondamente dai sistemi carcerari europei, dove la detenzione è vista come strumento di rieducazione più che di punizione. Paesi come Norvegia, Svezia e Germania adottano un approccio basato sul reinserimento dei detenuti: carceri con ambienti umani e dignitosi (celle singole, accesso a spazi verdi, istruzione), programmi di riabilitazione psicologica e lavorativa, basso tasso di recidiva (in Norvegia è inferiore al 20%, mentre in America Latina supera il 50%). Il principio guida è che un detenuto trattato con rispetto avrà più possibilità di reinserirsi nella società.

L’Italia ha un sistema intermedio tra repressione e rieducazione: Il carcere è punitivo, ma prevede percorsi di riabilitazione. I diritti umani sono garantiti: assistenza legale, sanitaria e sociale, sanzioni alternative per favorire il reinserimento (misure cautelari, lavori sociali, detenzione domiciliare).

Se nel breve periodo il carcere CECOT sembra aver risolto il problema della criminalità, nel lungo periodo il rischio è che diventi un’arma a doppio taglio. El Salvador rischia di ritrovarsi con migliaia di ex detenuti senza alternative, pronti a formare nuove gang ancora più letali. Molti vedono Bukele come un leader destinato a rimanere al potere a lungo, ma altri avvertono che il suo sistema potrebbe non reggere. Rinchiudere in cella i criminali come animali allo zoo, è un progetto di sicurezza sociale ai limiti della ragione.

TikTok e la narrazione di Bukele: propaganda 2.0

I video del CECOT spopolano su TikTok, Instagram e X, generando milioni di visualizzazioni. Ma chi li produce? Lo stesso governo salvadoregno. Bukele non è un dittatore vecchio stile, ma un maestro della comunicazione digitale. Su X si definisce “CEO di El Salvador” e il suo ufficio propaganda sfrutta i social media per costruire il mito del leader forte e implacabile.

Gli utenti di TikTok sono divisi: molti idolatrano Bukele, vedendolo come l’unico Presidente capace di sconfiggere le gang. Commenti come “Servirebbe un Bukele in Messico” o “Anche noi in Brasile vogliamo un carcere così” sono all’ordine del giorno. Altri denunciano la deriva autoritaria, mettendo in dubbio il sistema giudiziario: “E se arrestassero un innocente?”. I numeri parlano chiaro: Bukele ha il consenso di oltre l’85% della popolazione. Ma questo sostegno è frutto di vera sicurezza o di una narrazione studiata a tavolino?

Negli Stati Uniti, la destra lo celebra. Trumpiani e conservatori vedono in lui un esempio di sicurezza estrema, mentre i democratici lo criticano per le violazioni dei diritti umani.

La domanda è: Bukele potrebbe diventare un modello per altri Paesi? In Messico, alcuni politici propongono leggi simili per combattere i cartelli. In Ecuador, il presidente Noboa ha dichiarato lo stato d’emergenza contro le gang, citando Bukele come fonte d’ispirazione.

Negli Stati Uniti, il governatore del Texas Greg Abbott ha lodato Bukele, suggerendo misure più dure contro il crimine e l’immigrazione clandestina. Ron DeSantis, ex governatore della Florida, ha dichiarato che:

“Bukele dimostra che la criminalità può essere eliminata con il pugno di ferro.”

L’idea di un “Bukele americano” sta guadagnando consensi tra gli elettori repubblicani, alimentando il dibattito su fino a che punto uno Stato può spingersi per garantire sicurezza.

Gli Stati Uniti e la doppia faccia della diplomazia

Washington ha sempre avuto un ruolo chiave nella sicurezza di El Salvador. Negli anni ‘90 e 2000, gli USA hanno finanziato milioni di dollari in programmi anti-gang, addestrando poliziotti e fornendo armi. Eppure, oggi il Dipartimento di Stato esprime “preoccupazione” per le violazioni dei diritti umani, mentre la Casa Bianca evita di commentare direttamente Bukele.

Perché questa ambiguità? Gli Stati Uniti non vogliono un nuovo alleato che si avvicini a Cina o Russia. Bukele, infatti, ha già avviato collaborazioni con Pechino per investimenti infrastrutturali e ha mostrato apertura verso Mosca. El Salvador è diventato un Paese chiave nel gioco geopolitico della regione: gli USA lo considerano un alleato scomodo, ma necessario perché ha ridotto l’ondata di migranti verso il confine americano.

Per comprendere il fenomeno del CECOT, bisogna guardare indietro nel tempo. Le gang salvadoregne non sono nate in America Centrale, ma a Los Angeles. Negli anni ’80, decine di migliaia di salvadoregni fuggirono dalla guerra civile (1979-1992) e si rifugiarono negli Stati Uniti. Senza protezione e opportunità, i giovani migranti formarono bande come la Mara Salvatrucha (MS-13) e Barrio 18, per difendersi dalle gang afroamericane e messicane.

Negli anni ’90, gli Stati Uniti adottarono una politica di espulsione di massa, deportando migliaia di membri delle gang nei loro Paesi d’origine. Il risultato? Le bande, che negli USA erano solo gruppi locali, si trasformarono in organizzazioni criminali transnazionali. El Salvador, appena uscito dalla guerra civile, non aveva le forze per controllarle. Così, negli anni 2000, MS-13 e Barrio 18 divennero più potenti della polizia e del Governo stesso.

Voci dall’inferno: testimonianze dal CECOT

Sebbene l’accesso diretto alle testimonianze dei detenuti sia limitato, si può ricostruire la realtà carceraria attraverso le parole di ex detenuti, familiari e osservatori.

Un ex detenuto ha descritto il CECOT come un luogo dove “non esiste speranza”. Le celle sono sovraffollate, con fino a venti persone stipate in spazi progettati per dieci. La mancanza di letti adeguati costringe i prigionieri a dormire per terra, e le condizioni igieniche sono precarie.

All’interno del CECOT, la violenza è all’ordine del giorno. Un ex prigioniero ha raccontato di come i detenuti siano costretti a formare bande per proteggersi, portando a scontri frequenti. La scarsità di cibo e le condizioni disumane alimentano ulteriormente la tensione.

Le famiglie dei detenuti lottano per ottenere giustizia e migliorare le condizioni dei loro cari. Un gruppo di avvocati ha presentato un habeas corpus alla Corte Suprema di El Salvador, chiedendo la liberazione immediata di trenta venezuelani detenuti nel CECOT. Le accuse contro di loro si basano su presunti legami con bande criminali, ma le famiglie contestano queste affermazioni, sottolineando la mancanza di prove concrete.

Secondo Human Rights Watch e Amnesty International, migliaia di persone sono state arrestate senza prove concrete. Un rapporto del 2023 denuncia centinaia di detenuti morti in carcere, senza indagini ufficiali.

È essenziale che le autorità competenti indaghino su queste denunce e lavorino per garantire che i diritti umani siano rispettati all’interno del sistema penitenziario salvadoregno.

L’impatto psicologico del CECOT: la paura come strumento di controllo

Il carcere CECOT non è solo una struttura fisica, ma un simbolo di un nuovo ordine sociale basato sulla paura. Se prima la popolazione viveva nel terrore delle “Maras”, oggi vive nel timore del Governo. Ma qual è l’effetto psicologico di questa repressione sulla società salvadoregna? Per anni, i salvadoregni hanno vissuto con una paura costante: essere uccisi, reclutati o ricattati dalle gang. Ora, la paura ha cambiato forma: chiunque può essere arrestato senza processo, con il rischio di finire al CECOT senza prove. Le famiglie dei detenuti vivono nel terrore di non rivedere mai più i loro cari. La fiducia nella giustizia è crollata: il governo decide chi è colpevole senza bisogno di un giudice. Questa situazione crea un circolo vizioso di stress, ansia e sottomissione sociale.

Il governo Bukele utilizza il CECOT come un elemento di propaganda, mostrandolo nei video virali su TikTok per rafforzare un messaggio chiaro:

“Se sei contro di noi, questo è il tuo destino.” Questa strategia ha un impatto profondo sulla mente collettiva: La paura della punizione crea conformismo: le persone evitano di criticare il governo per non essere etichettate come “sostenitori delle gang”. La società si abitua alla repressione: più il governo reprime, più la popolazione accetta misure estreme come “normali”.

L’odio diventa uno strumento di controllo: il Governo alimenta la divisione tra “cittadini perbene” e “delinquenti”, creando un clima di delazione e sospetto. Questi meccanismi sono tipici dei regimi autoritari: storicamente, la paura è sempre stata lo strumento più efficace per mantenere il potere. Quando uno Stato esercita un controllo totale attraverso la paura, la popolazione sviluppa un senso di impotenza. Quando la paura si spegnerà, cosa resterà della società salvadoregna?

Federica Cascio per Questione Civile

Sitografia

www.nypost.com

www.elpais.com

Nova lectio, dentro il mega-carcere più pericoloso del mondo (CECOT, El Salvador), youtube.com

www.diritto.it

www.osservatoriodiritti.it

www.lacittafutura.it

www.giustizia.it, Relazione sulla visita in Norvegia di una delegazione degli stati generali sull’esecuzione penale.

www.ispionline.it

www.ilpost.it

www.ilcaffegeopolitico.it

www.amnesty.it

www.politicamag.it

www.linkiesta.it


[1] Dizionari Simone, Habeas Corpus: Nel sistema anglosassone di common law, si indica, l’ordine emesso da un giudice di portare un prigioniero al proprio cospetto.

Con tale espressione si fa riferimento, più in generale, al diritto in base al quale una persona può difendersi dall’arresto illegittimo di sé stessa o di un’altra persona. Il diritto di habeas corpus nel corso della storia è stato un importante strumento per la salvaguardia della libertà individuale contro l’azione arbitraria dello Stato.

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