L’appuntamento con la democrazia diretta: i cinque referendum popolari abrogativi e l’importanza dell’esercizio del diritto di voto
L’8 e il 9 giugno 2025 i cittadini della Repubblica saranno chiamati a partecipare al referendum popolare abrogativo, che attraverso cinque quesiti chiederà di esprimersi su temi riguardanti il lavoro e la cittadinanza. Il crescente astensionismo degli italiani rende molto incerto il risultato di queste votazioni, con la sensibile preoccupazione del non raggiungimento del quorum.
Il referendum popolare abrogativo secondo il diritto
Il referendum è uno strumento di democrazia diretta, tramite il quale il cittadino può partecipare attivamente alle decisioni politiche, modificandole, integrandole o eventualmente abrogandole.
Nel caso delle votazioni attese per giugno 2025, si parla di referendum abrogativo, disciplinato dall’articolo 75 della Costituzione.
L’esercizio di tale strumento permette ai cittadini di richiedere l’abrogazione, totale o parziale di una legge:
«È indetto referendum popolare per deliberare la abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali.»
Per legge, dunque, un referendum abrogativo deve essere richiesto da almeno cinquecentomila elettori o da cinque Consigli regionali, la cui richiesta deve essere presentata in un periodo compreso fra gennaio e settembre.
I quesiti devono essere formulati in modo estremamente chiaro, in quanto gli elettori esprimono la loro preferenza tramite un semplice “SI” o “NO”. L’Ufficio centrale per il referendum verifica la regolarità e il numero delle firme e se l’esito è positivo, invia tutto alla Corte costituzionale, che si esprime in merito all’ammissibilità delle richieste. Se anche la Corte costituzionale dà il via libera, la richiesta di referendum passa al Presidente della Repubblica, che dovrà indire le votazioni in un periodo compreso fra il 15 aprile e il 15 giugno.
I criteri per la validità del referendum sono innumerevoli: ci sono materie costituzionalmente escluse dai referendum abrogativi, come per esempio le leggi tributarie o di bilancio, e in generale tutte le disposizioni di rango costituzionale, ossia sovraordinate alla legge ordinaria.
Un referendum abrogativo è valido se viene raggiunto il quorum costitutivo, ossia se partecipa alla votazione la maggioranza degli aventi diritto al voto. La norma ad oggetto viene abrogata se si raggiunge il quorum deliberativo, ossia se tra i voti validamente espressi c’è una maggioranza di SI.
Il referendum dell’8 e 9 giugno: i quesiti sul lavoro
A gennaio la Corte costituzionale ha ritenuto ammissibili i quattro quesiti referendari sul tema del lavoro: i quesiti, tutti di tipo abrogativo, promossi dai sindacati del lavoro, affrontano temi riguardanti i diritti dei lavoratori.
Il primo quesito si pone l’obiettivo di abrogare la disciplina che regola il contratto a tutele crescenti, contenuto nel Jobs Act. Attualmente, chiunque sia stato assunto dal 7 marzo 2015 e subisca un licenziamento illegittimo nelle imprese con più di 15 dipendenti, non ha diritto al reintegro nel posto di lavoro, ma si prevede esclusivamente un’indennità economica via via maggiore in proporzione all’anzianità di assunzione.
Il secondo riguarda i lavoratori delle piccole imprese, che attualmente sono sottoposti ad un tetto all’indennità in caso di licenziamento illegittimo. Ad oggi è previsto un risarcimento massimo di sei mensilità, che aumentano fino a quattordici in base all’anzianità del licenziato. Con l’abrogazione di tale norma, sarebbe il giudice a determinare l’entità del risarcimento, tenendo conto delle specifiche del singolo caso.
Il terzo chiede l’abrogazione parziale di alcune norme sull’impiego dei contratti a termine: attualmente è possibile proporre contratti a termine senza causale nei primi dodici mesi dall’assunzione, ossia è possibile non presentare alcuna giustificazione oggettiva per la scelta di un contratto temporaneo.
L’approvazione del quesito renderebbe obbligatoria da subito la presenza di una causale, riducendo la flessibilità per le imprese, ma andando ad influire sulla condizione di precariato dilagante.
Il quarto vuole abrogare la norma che esonera il committente, l’appaltatore e il subappaltatore dalla responsabilità solidale in caso di infortunio sul lavoro, quando esso sia causato da rischi specifici dell’attività dell’appaltatore o del subappaltatore. Si chiede di estendere la responsabilità del committente a tali danni, spingendo le imprese ad esercitare un controllo maggiore e permettendo ai lavoratori di ampliare la loro possibilità di un risarcimento danni.
Il referendum cittadinanza
Il quinto quesito referendario, depositato in Cassazione con 637 mila firme, riguarda la modifica della legge n. 91 del 1992, riguardante la cittadinanza. Attualmente sono circa 2 milioni e 500 mila le persone di origine straniera che sono nate, cresciute, hanno studiato e lavorano in Italia, senza però essere riconosciute dallo Stato come cittadini.
La richiesta del referendum è la facilitazione della naturalizzazione degli stranieri, dimezzando i tempi di residenza legale in Italia per fare richiesta di concessione della cittadinanza, passando dagli attuali dieci anni a cinque.
Inoltre, la legge 91/1992 contiene anche una norma specifica per i minorenni adottati da cittadini italiani, che prevede l’ottenimento della cittadinanza solo in caso di adozione formale. Il quesito, quindi, propone due modifiche: ridurre il temo di residenza continuativa in Italia a cinque anni e eliminare il riferimento all’adozione contenuto nella legge.
Tutti gli altri requisiti richiesti dalla legge rimarrebbero invariati: la conoscenza della lingua italiana, l’incensuratezza penale, il possesso negli ultimi anni di un consistente reddito, l’assenza di cause ostative collegate alla sicurezza della Repubblica, l’ottemperanza agli obblighi tributari.
In caso di vittoria del SI, dunque, sarebbe più agevole l’acquisto della cittadinanza per gli stranieri maggiorenni, garantendo automaticamente lo stesso diritto anche ai loro figli minorenni, che diventerebbero cittadini grazie alla naturalizzazione dei genitori.
Secondo i promotori di tale referendum, ossia il deputato del partito progressista +Europa Riccardo Magi, seguito da diversi altri partiti e associazioni, tale riforma andrebbe a dare una rappresentazione molto più veritiera del tessuto socio economico attuale del Paese. Ad oggi, infatti, ci sono milioni di persone che giornalmente permettono il progresso della vita economica e culturale italiana, ma che agli occhi dello Stato non hanno gli stessi diritti e doveri dei cittadini riconosciuti tali.
Il silenzioso “partito del non voto”: l’astensionismo elettorale
Il 18 luglio 2024, Area Studi Legacoop e Ipsos hanno presentato un report basato sui risultati di un sondaggio eseguito su un campione composto da 800 casi di elettori italiani dai 18 anni in su.
Il risultato è stato lapidario: 3 italiani su 4 sono “poco” o “per niente” interessati alla politica, con un livello complessivo di fiducia nelle istituzioni e nelle figure politiche che si attesta sotto il 50%. Il dato forse più allarmate è che il 46% degli astenuti non ha addotto alcuna motivazione alla base del loro rifiuto a recarsi alle urne.
Alla luce di questi dati, preoccupa molto la possibile invalidità dei referendum a causa della mancanza di un quorum costitutivo. Comprendere le ragioni dell’astensionismo è essenziale per tutti gli attori della democrazia rappresentativa, dai politici in senso stretto, ai legislatori, fino ovviamente agli elettori.
Risulta doveroso fare una distinzione fra astensionismo involontario e volontario: il primo scaturisce da cause di forza maggiore, che impediscono fisicamente all’elettore di recarsi alle urne. Un esempio estremamente attuale è il caso dei fuori sede, che solo grazie al Decreto Elezioni del 13 marzo 2025 hanno potuto far richiesta per votare nel comune di domiciliazione.
È però la seconda tipologia di astensionismo, quello volontario, a destare più preoccupazioni: in questo caso gli elettori scelgono consapevolmente di non esercitare il diritto di voto, che sia per disinteresse e sfiducia nella politica o che sia per protesta, come una forma di opposizione alla classe politica, alle proposte dei partiti o per una generale disapprovazione della pratica elettorale.
È chiaro che si parla di due diverse tipologie di elettori: i primi sono poco coinvolti nella vita politica del Paese, la sentono lontana e estranea, mentre chi esercita l’astensionismo di protesta è un cittadino che si aliena in modo politicamente consapevole.
Il Governo Meloni e l’invito al non voto per il referendum
I referendum del 2025 hanno suscitato un forte dibattito pubblico e politico. Sono stati diversi gli esponenti del Governo Meloni e dei partiti di maggioranza che hanno invitato apertamente gli elettori ad astenersi dal recarsi alle urne l’8 e il 9 giugno. Fra chi incoraggia tale scelta troviamo il vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani, esponente di Forza Italia, seguito da esponenti della Lega e di Fratelli d’Italia.
La dichiarazione che ha infiammato di più il dibattito è sicuramente quella del presidente del Senato, Ignazio La Russa: «Farò propaganda affinché la gente se ne stia a casa», pronunciata durante l’incontro organizzato da FdI a Firenze, davanti ad altri ministri e parlamentari.
L’opposizione ha duramente criticato l’invito all’astensione, ritenendolo al limite dell’illegittimo se proveniente da cariche istituzionali. È davvero così? In prima battuta bisognerebbe capire se il non votare sia legittimo, domanda che a sua volta riporta ad un dibattito che circolarmente ritorna ad infiammare le istituzioni.
La Costituzione italiana, all’articolo 48, definisce l’esercizio del voto un “dovere civico”, un’espressione che sicuramente esprime l’auspicio dei costituenti che tutti i cittadini partecipassero al processo elettorale. È appurato che questa formulazione della norma sia un compromesso fra i membri dell’Assemblea costituente che volevano l’obbligatorietà del voto e chi era contrario.
L’articolo 4 del Testo unico sulle leggi elettorali afferma che
«il voto è un dovere civico e un diritto di tutti i cittadini, il cui libero esercizio deve essere garantito e promosso dalla Repubblica».
Nel 2005 la Corte costituzionale è intervenuta nel merito, stabilendo che la scelta di non votare è una forma di esercizio del diritto di voto, a cui andrebbe attribuita un’interpretazione socio politica, piuttosto che considerarla come una manifestazione di volontà politica.
Di fatto il voto non costituisce un obbligo giuridico, quindi l’astensionismo è lecito.
L’invito all’astensione è libertà di pensiero o scorrettezza delle istituzioni?
L’articolo 21 della Costituzione recita:
«Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione»
Dunque, se è legittima l’astensione dal voto, è altresì lecito l’invito a non votare, in quanto espressione del pensiero, diritto costituzionalmente garantito.
La libertà di manifestazione del pensiero è limitata dall’articolo 98 del Testo unico sulle leggi elettorali, testualmente:
«Il pubblico ufficiale, l’incaricato di un pubblico servizio, l’esercente di un servizio di pubblica necessità, il ministro di qualsiasi culto, chiunque investito di un pubblico potere o funzione civile o militare, abusando delle proprie attribuzioni e nell’esercizio di esse, si adopera a costringere gli elettori a firmare una dichiarazione di presentazione di candidati o a vincolare i suffragi degli elettori a favore od in pregiudizio di determinate liste o di determinati candidati o a indurli all’astensione, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da lire 600.000 a lire 4.000.000».
Risulta evidente che manifestare un’opinione per fare propaganda all’astensionismo non corrisponda ad un convincimento forzato dell’elettore a rinunciare al proprio diritto di voto. Dunque, qualsiasi titolare di carica pubblica che abbia manifestato aperto dissenso nei confronti del referendum di giugno, auspicandone il fallimento o invitando gli elettori a non votare, non ha tecnicamente commesso un atto illegale.
La questione a questo punto probabilmente verte più su un piano etico e morale, per cui si potrebbe sostenere che in un Paese che sta assistendo al più alto tasso di astensionismo mai registrato, le istituzioni dovrebbero farsi portavoce della cultura del processo democratico, incentivando il voto e l’esercizio degli strumenti a disposizione dei cittadini per un’espressione piena e totale della volontà popolare.
Mia Brogi per Questione Civile
Sitografia:
www.riformeistituzionali.gov.it
www.notaio-busani.it
www.wired.it
www.zanichelli.it
www.avvocatoticozzi.it
www.altalex.com
www.referendum2025.it
www.ilsole24ore.com
www.lecostituzionaliste.it
www.larepubblica.it
www.pagellapolitica.it
www.openpolis.it
www.senato.it