Socrate: l’ingiusta condanna di un uomo scomodo

Socrate

Le ragioni del processo a Socrate: la città di Atene contro il suo miglior cittadino

Atene, 399 a.C. In Tribunale e al cospetto della giuria popolare, con parole intrise della sua proverbiale e pungente ironia, Socrate iniziava il proprio discorso di difesa in un processo destinato alla storia:

Non so voi altri, signori ateniesi, sotto che effetto siate per via dei miei accusatori. So che io — sì, io — ancora un poco e smarrivo il senso di me stesso, sotto quell’effetto. Troppo convincenti, quei discorsi” (Platone, Apologia di Socrate, 17 a.).

Se incerte ed ancora oggi dibattute sono le motivazioni che spinsero gli accusatori ad intentare un processo contro il filosofo ormai settantenne, possiamo invece stabilire con discreta sicurezza che il processo si è svolto nel rispetto di tutti i passaggi formali e procedurali previsti dal diritto ateniese.

Dunque, contrariamente a quanto sarebbe comune pensare, l’ingiustizia e il conseguente scandalo suscitato in ogni tempo e luogo, riguardò la sua conclusione, ma non il processo in sé, che anzi, oltre ad essere formalmente valido, aveva anche motivo di esistere e appare oggi molto meno spregiudicato che in passato. 

Contesto storico del processo a Socrate: andata e ritorno della democrazia

Nel 404 a.C., il lungo assedio condotto dall’ammiraglio Lisandro aveva obbligato Atene, ormai ridotta alla fame, a capitolare in favore di Sparta. Dopo ventisette anni, si concludeva così la Guerra del Peloponneso, con l’umiliazione di vedere le Lunghe Mura “demolite al suono delle flautiste” (Xen., Hell., II 2, 23). Sparta impose alla fazione sconfitta delle severe condizioni di resa, tra cui l’instaurazione del regime oligarchico dei famigerati “Trenta Tiranni”, capeggiati da un allievo dello stesso Socrate, l’aristocratico Crizia. Quest’ultimo fu il principale artefice delle antipatie suscitate verso il nuovo governo, a causa di una politica sempre più radicale e repressiva.

Ben presto i malumori sfociarono in una vera e propria resistenza democratica, guidata da Trasibulo che, partendo da Tebe alla testa di un migliaio di esuli, sconfisse l’esercito oligarchico nella battaglia di Munichia (403 a.C.), nella quale perirono molti dei suoi esponenti, tra cui lo stesso Crizia. Dopo appena 8 mesi, complice l’intervento bellico e diplomatico del re spartano Pausania, ad Atene veniva restaurata la democrazia.

Il nuovo governo, per evitare rappresaglie e vendette private, concesse l’amnistia a chiunque avesse appoggiato i recenti e sovversivi avvenimenti politici, ad eccezione di chi avesse rivestito ruoli di potere. Sotto il giuramento di non rievocare i mali trascorsi (“me mnesikakein”), ogni rimando alla guerra civile veniva ufficialmente proibito, con l’intenzione di favorire un clima di pace e concordia.

In realtà, lo spettro dei Trenta Tiranni non scomparve e coloro che avevano simpatizzato per il regime oligarchico non potevano dirsi al sicuro. Lo dimostrano, ad esempio, le vicende giudiziarie dell’epoca, tra cui i processi intentati ai danni di Andocide e, appunto, Socrate.  

In generale, Atene non tornò più all’egemonia politica e allo splendore culturale che aveva raggiunto nel V secolo, e la democrazia appena restaurata si mostrava ora più inquieta e guardinga.

Le accuse ufficialmente mosse contro Socrate

L’indagine sui possibili motivi che avrebbero provocato il processo a Socrate, non può che partire dall’accusa formalmente rivolta al filosofo da Meleto, un poeta, assistito da Anito e Licone. Il testo ci è stato tramandato per intero:

Meleto, figlio di Meleto, del demo Pito, contro Socrate, figlio di Sofronisco, del demo Alopece, presentò quest’accusa e la giurò: «Socrate è colpevole di non riconoscere gli dèi che la città riconosce, e di introdurre altri nuovi esseri demonici. Inoltre, è colpevole di corrompere i giovani. Si richiede dunque la pena di morte»”.

Due sono, quindi, i capi d’imputazione ufficiali: diffusione di nuovi culti contrari alla tradizione e corruzione dei giovani.

L’accusa di empietà: il pensiero socratico al vaglio del tradizionalismo religioso

La prima accusa prende il nome di “empietà” (“asebeia) ed era un crimine molto grave. Per i Greci, l’esperienza religiosa permeava tutti gli aspetti della vita pubblica e privata. I riti e le festività religiose scandivano non solo il calendario attico ma anche i passaggi più importanti della vita di un cittadino. Credere negli dèi, onorarli ed osservarne i relativi culti era considerato un importante dovere cittadino, poiché protettori della città e i fautori del suo benessere.

Socrate si inserisce in quella vasta cerchia di intellettuali che già in passato si erano distanziati dalle rappresentazioni tradizionali delle divinità. La speculazione religiosa era infatti diffusa e non di rado stridente con la sensibilità comune. Non è un caso se il processo a Socrate è solo uno dei tanti celebrati per cause religiose a cavallo tra il V ed il IV secolo.

Le testimonianze raccontano un Socrate rispettoso delle tradizioni cittadine. In questo senso, è ragionevole pensare che sia stato processato più per le sue idee e i suoi insegnamenti, decisamente anticonformisti, che per dei fatti concreti. È indicativo che anche nel proprio discorso di difesa, Socrate non si riferisca mai agli dèi ateniesi, ma genericamente al dio, senza ulteriori precisazioni. Che dire poi del celeberrimo daimonion, quella voce o segno che Socrate dichiara di aver avvertito in molti momenti, anche decisivi, della sua vita.

Per il filosofo, ciò che caratterizza le divinità è la loro perfetta conoscenza del bene, che li rende moralmente superiori agli uomini: se infatti conoscono il bene, non potranno che agire per esso. Nella visione socratica, quindi, gli dèi non potranno mai assumere comportamenti violenti, immorali o litigiosi, in evidente antitesi rispetto al pantheon greco tradizionale.

La perfetta sapienza degli dèi diventa per Socrate un modello morale cui tendere e aspirare, per contribuire all’ordinata bellezza dell’universo.

L’insegnamento socratico: un metodo pericoloso

La seconda accusa, quella di corrompere i giovani, non era che una conseguenza pratica della prima. Si temeva infatti che le nuove teorie cosmologiche e teologiche del tempo minacciassero i valori tradizionali su cui si basava la società e l’educazione (“paideia”).

In particolare, tale sostrato valoriale veniva trasmesso ai giovani attraverso lo studio della tradizione poetica e mitica. Proprio nel rapporto con quest’ultima, Socrate veniva equiparato, non completamente a torto, ai sofisti.

I sofisti erano quegli intellettuali che, in un società completamente basata sull’oralità, nei tribunali come nelle assemblee, iniziarono ad insegnare (dietro compenso) l’arte della retorica, finalizzata non tanto alla ricerca della verità quanto all’esito vittorioso di un qualunque dibattito. Essi si ponevano in un rapporto di confronto e confutazione anche con la tradizione poetica, spesso mettendo in discussione valori percepiti come eterni e assoluti, inimicandosi l’opinione pubblica.

In effetti, anche la filosofia socratica mirava ad una riflessione sui princìpi tradizionali, ma con un fine ben diverso. Obiettivo di Socrate era quello di liberare la mente dell’interlocutore dai luoghi comuni e dai pregiudizi, e permettergli così di procedere autonomamente e criticamente verso la verità. Inoltre, lo stesso Socrate rivendica di aver sempre insegnato senza percepire nulla.

Tuttavia, il metodo socratico veniva spesso frainteso.

Socrate, infatti, utilizzava la sua ironica ignoranza per far parlare gli altri, che venivano poi puntualmente confutati. Egli voleva stimolare una riflessione autentica su sé stessi, senza però offrire alcuna soluzione o verità. Non a caso i dialoghi platonici sono tutti aporetici, senza un reale punto di arrivo.

Tale insegnamento, secondo alcuni studiosi, era forse percepito come destabilizzante e pericoloso dalla collettività. Pericoloso nella misura in cui lasciava spazio a dubbi e questioni insolute, che spettava poi al singolo cercare di dipanare, spesso con esiti disastrosi. In questo, Crizia e Alcibiade rappresentano gli esempi più emblematici.

Quello a Socrate fu un processo politico?

Nonostante il tenore delle accuse, c’è chi ha sostenuto che dietro al processo vi fosse l’intenzione, politica, di colpire un popolare simpatizzante dell’oligarchia. Del resto, l’idea che Socrate fosse vicino alle posizioni aristocratiche e filospartane circolava già all’epoca.

Il pregiudizio nei confronti del filosofo nasceva dall’osservazione di coloro che lo seguivano, personaggi spesso dichiaratamente nemici della democrazia, o ritenuti tali: uno su tutti, il già menzionato Crizia.

L’ipotesi, a ben vedere, non è affatto irragionevole. Socrate infatti, oltre a non essersi mai impegnato politicamente, non approvava la pratica democratica del sorteggio. Egli sosteneva che i governanti dovessero essere scelti non per mero caso, ma per le competenze a loro riconosciute. Tanto bastava, agli occhi di un cittadino ateniese dell’epoca, ad associare il filosofo ad una scelta politica ben precisa.

Al contempo, non mancano ragioni per supporre il contrario. Anzitutto, Socrate non amava agire in ambienti chiusi o elitari, come gli aristocratici, prediligendo il dialogo in pubblico.

Inoltre, è noto che tra i suoi interlocutori vi fossero anche dei democratici, come Cherefonte, che combatté al seguito di Trasibulo contro il regime oligarchico.

Anche in merito al rapporto con Crizia, Senofonte racconta che Socrate non esitò a biasimare severamente l’allievo per le sue malefatte. Secondo diverse fonti, quando gli fu ordinato di partecipare alla cattura di un dissidente politico, tale Leone di Salamina, il filosofo si rifiutò apertamente di collaborare con il regime dei Trenta Tiranni.

Socrate quindi si distinse per la sua autonomia  e coerenza di pensiero, come quando nel processo agli strateghi tornati dalle Arginuse, si oppose fermamente, nonostante le minacce subite, alla scelta scellerata ed illegale di condannarli.

Insomma, appare difficile sostenere la natura esclusivamente politica del processo. Tuttavia, è certo che le idee e le conoscenze politiche di Socrate non abbiano giovato alla sua causa.

Un processo formalmente ineccepibile

Il processo a Socrate rappresenta una preziosa testimonianza di come funzionava il processo attico.

Il sistema giudiziario era di tipo accusatorio, ma non vi erano figure assimilabili agli odierni pubblici ministeri. Le cause potevano essere private (“dike”), ove solo la parte lesa poteva agire, oppure pubbliche (“graphe”), in cui chiunque poteva denunciare violazioni di legge e promuovere un processo, come nel caso di Socrate.

Una volta depositata l’accusa, uno degli arconti convocava le parti per verificarne la correttezza formale o ascoltare eventuali ragioni dell’accusato. Due due dialoghi platonici, il Teeteto e l’Eutifrone, sono ambientati proprio nel momento in cui Socrate si sta recando dall’arconte re per prendere visione dell’accusa. Una volta riconosciuta l’ammissibilità dell’accusa, l’arconte procedeva ad un’indagine preliminare, all’esito della quale, se positivo, i capi d’imputazione venivano resi pubblici e si dava inizio al procedimento.

Nel processo vero e proprio, le parti dovevano intervenire personalmente (non esisteva la figura di avvocato) ed esporre le proprie ragioni davanti ai giurati (501 nel processo a Socrate) e al pubblico presente, tutt’altro che passivo e silenzioso.

La prima fase del processo era volta a vagliare la fondatezza dell’accusa e si concludeva con una votazione, che nel caso di Socrate terminò in favore degli accusatori con uno scarto ridotto: 280 favorevoli e 221 contrari. In caso di assoluzione, l’accusatore rischiava di incorrere in una pena, prevista proprio allo scopo di evitare processi non sufficientemente fondati. 

La seconda fase prevedeva due ulteriori interventi delle parti, finalizzati a stabilire l’entità della pena (se non prevista già dalla legge). All’accusa spettava infatti di proporre una pena, cui la difesa poteva offrire una controproposta, e i giudici erano obbligati a scegliere o l’una o l’altra. Seguiva una seconda votazione, che nel caso di Socrate vedrà raggiunta una netta maggioranza a favore della pena capitale proposta dagli accusatori.

Socrate, un condannato privilegiato

All’esito della seconda votazione, il processo era ufficialmente concluso, anche se sia Senofonte che Platone ci hanno trasmesso un terzo discorso di Socrate il quale, ormai condannato, verrà poi accompagnato in prigione.

Il sistema legale ateniese non prevedeva la comminazione di una pena detentiva, di conseguenza la prigione rappresentava un luogo di attesa. Non confortevole, certo, ma dove il prigioniero, in catene, attendeva l’esecuzione della pena capitale continuando a fare le cose di tutti i giorni. La famiglia provvedeva al vitto e alla pulizia della cella, e chiunque lo volesse poteva fare visita al condannato. Anche in prigione, infatti, Socrate continuò a dialogare con i propri discepoli, come raccontato da Platone nel Critone e nel Fedone.

Socrate venne condannato all’avvelenamento con la cicuta, pena diffusasi alla fine del V secolo e alternativa di esecuzioni ben più brutali, come ad esempio la precipitazione in un baratro. La cicuta era un veleno che veniva somministrato nella stessa prigione, sotto la supervisione dei carcerieri e al cospetto di amici o familiari. Costituiva, quindi, un privilegio rispetto alle esecuzioni pubbliche, decisamente più umilianti per il malcapitato. Proprio per questo, e perché difficilmente reperibile in Attica,  la cicuta era molto cara ed era previsto, di regola, che fosse lo stesso condannato a pagarla. 

Socrate: simbolo della libertà intellettuale e della coerenza morale… ad ogni costo! 

Il processo a Socrate è destinato per molti versi a rimanere un mistero. Non è da escludere che oltre alle questioni sopra affrontate, alla sua base vi fossero dei rancori personali mai del tutto sopiti.

In ogni caso, dalla lettura dei testi di Platone e Senofonte, si intuisce che, probabilmente, una difesa più conciliante e meno provocatoria di Socrate avrebbe scongiurato la condanna.

Tuttavia, in una prospettiva storica, con il proprio discorso ed il proprio esempio di strenua coerenza, Socrate ha saputo ribaltare l’esito della sentenza a scapito di Atene, condannata invece dalla Storia. In effetti, la vicenda socratica mette in luce gli evidenti limiti della giustizia popolare ateniese, fin troppo spesso condizionata dagli umori e dai sentimenti dei giurati, privi di una reale formazione giuridica.

La culla della democrazia non ha saputo, o forse potuto, comprendere la portata dell’insegnamento socratico, finendo per condannare colui che “fra tutti quelli del suo tempo fu il migliore, e insieme il più saggio e il più giusto” (Platone, Fedone, 118 a.).

Eppure, proprio i momenti finali della vita di Socrate hanno restituito pienamente la grandezza e la straordinarietà del suo pensiero. La consapevolezza di essere stato condannato ingiustamente non gli ha impedito di accettare serenamente il verdetto e anche la morte, pur di non rinnegare la coerenza di una vita intera trascorsa a difendere la giustizia e ricercare la verità.

Non si può che rimanere sbigottiti di fronte alla dirompente profondità etica che Socrate ha saputo incarnare, arrivando persino a rifiutare la possibilità, offertagli da Critone, di evadere dalla prigione e sfuggire così ad una condanna iniqua. Ciò avrebbe significato tradire quelle stesse Leggi che lo avevano generato e cresciuto. Ma per Socrate, qualunque cosa accada, non si è mai autorizzati a reagire al male con il male.

Alessandro Fusco per Questione Civile

Bibliografia

BONAZZI M., Processo a Socrate, Editori Laterza, Bari, 2018

SAVINO E. (a cura di), Platone, Simposio, Apologia di Socrate, Critone, Fedone, Mondadori, Milano, 2023 FLACELIÈRE R., La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle, Fabbri Editori, Milano, 1

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