Lukašėnko e la rivoluzione delle ciabatte in Bielorussia

Aljaksandr Lukašėnko: una dittatura senza fine

L’Archivio di Storia delle Relazioni Internazionali intende ricostruire le vicende burrascose riguardanti la Bielorussia e le ultime elezioni presidenziali che hanno visto l’ennesima vittoria dell’ultimo dittatore d’Europa, Aljaksandr Lukašėnko.

Lukašėnko è leader indiscusso della Bielorussia da ben 26 anni. Infatti, dalla vittoria alle elezioni presidenziali del 1994, le prime svolte a seguito dell’indipendenza bielorussa dall’ex Unione Sovietica, in cui segnò l’80,6% dei consensi, egli non ha mai più lasciato la postazione di comando.

Nato il 30 agosto 1954 a Kopys’, nel distretto di Orša, Lukašenko si laurea in economia all’Istituto di Mahilëŭ nel 1974 e serve l’esercito sovietico nelle truppe di frontiera negli anni 1975-1977 e 1980-1982. Lasciato l’esercito, viene eletto nel 1985 Direttore di una sovchoz, una grande “fattoria” dello Stato.

Sempre nel 1985 si laurea all’Accademia Bielorussa di Agricoltura. Nel 1990 fa il suo primo grande passo in politica, poiché è eletto deputato del Soviet bielorusso. Fonda il partito “Comunisti per la Democrazia” che avrebbe dovuto guidare l’Unione Sovietica a diventare un paese democratico seguendo principi comunisti. Lukašėnko sostiene che, nel dicembre 1991, egli sia stato l’unico ad aver votato contro l’accordo che scioglieva l’Unione Sovietica e proclamava la nascita della CSI. (Comunità degli Stati Indipendenti).

Le mosse di Lukašėnko

Dopo la vittoria alle elezioni presidenziali del 1994, Lukašenko trova davanti a sé un paese fortemente in difficoltà a livello finanziario; per questo motivo, raddoppia la quota del minimo salariale e reintroduce il controllo dei prezzi da parte dello Stato. Cancella, inoltre, le poche riforme economiche che erano state prese nel governo precedente.

Tuttavia, in un paese quasi completamente dipendente dalla Russia, da cui gas ed elettricità vengono (ancora oggi) importati, il governo bielorusso si trova con molti debiti da pagare. Per cui, Lukašenko vede come unica necessità l’unione economica tra Russia e Bielorussia. Nel 1995, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale sospendono i prestiti alla Bielorussia, data la mancanza di riforme economiche che la politica di Lukašenko offre.

Lukašenko e i continui brogli elettorali

Il 24 novembre 1996, riesce ad indire un referendum per estendere il proprio mandato di Presidente da 5 a 7 anni. Il referendum, nel quale Lukašenko ottiene il 70,5% di voti, viene fortemente condannato dagli oppositori, e l’Unione Europea e gli Stati Uniti d’America rifiutano di accettare la legittimazione del voto. Grazie ai nuovi poteri che il referendum gli conferisce, il presidente bielorusso riesce a cacciare 89 deputati dal parlamento poiché definiti sleali.

Nel 2001, Lukašenko riottiene la vittoria al primo turno delle nuove elezioni presidenziali con il 75,65% dei voti; ma l’OSCE definisce la sua vittoria non in concordanza con gli standard internazionali per i diritti umani. I paesi occidentali si oppongono ancora una volta alla legittimazione del voto, mentre la Russia conferisce il proprio benvenuto al nuovo mandato di Lukašenko.

Il 7 settembre 2004, durante un discorso televisivo alla nazione, annuncia un referendum per eliminare i limiti dei mandati presidenziali. Così, nel referendum del 17 ottobre 2004, il 79,42% dei voti sostiene la sua decisione. Precedentemente la Costituzione bielorussa limitava a due mandati il ruolo di Presidente della Repubblica, ma in questo modo egli può ricandidarsi per le elezioni del 2006. I risultati di questo referendum vengono contestati dall’OSCE, dall’Unione Europea e dal Dipartimento di Stato statunitense, che definiscono la campagna elettorale di Lukašenko antidemocratica.

Anche alle presidenziali del 2006 Lukašenko conferma la sua leadership; ed anche in questo caso le elezioni vengono definite dall’OSCE e dagli Stati occidentali antidemocratiche ed assolutamente scorrette. L’esito delle elezioni, tuttavia, ottiene il benestare della Russia tramite le parole del suo leader, Vladimir Putin:

“Il risultato delle elezioni dimostra la fiducia dei votanti nelle sue politiche volte ad accrescere ulteriormente il benessere del popolo bielorusso”.

2020: l’opposizione resiste, iniziano gli scontri

Ad oggi, sono 6 i mandati consecutivi compiuti da Lukašenko, con la vittoria delle elezioni presidenziali del 2010, del 2015 e del 2020. Queste ultime elezioni, svolte il 9 agosto 2020, scatenano rivolte e manifestazioni di massa contro la leadership di Lukašenko, ritenuta antidemocratica, illegale e dittatoriale.
Anche in quest’occasione, Lukašenko ottiene circa l’80% dei voti contro il 10% della sfidante dell’opposizione Sviatlána Cichanóŭskaia.

Durante il giorno delle elezioni, Internet in Bielorussia viene parzialmente bloccato e Telegram è l’unico servizio di messaggistica istantanea funzionante. In serata la linea nazionale viene ripristinata e la TV sponsorizzata dal governo bielorusso manda in onda i risultati degli exit poll che mostrano Lukašėnko vincente con l’80,23% dei voti, mentre Cichanoŭskaja riceve solo il 9,9%. Appare evidente anche agli esponenti filogovernativi che tali exit poll non possano essere autentici.

Esplodono subito nella capitale Minsk, per poi propagarsi in altre aree del paese, le proteste da parte del popolo bielorusso che parla di “brogli elettorali” e che chiede nuove elezioni; il Segretario di Stato USA Mike Pompeo osserva che le elezioni non sono state “free and fair”. La Cichanóŭskaia, il cui marito è in carcere per essere stato dichiarato “dissidente” dal leader bielorusso, dichiara convintamente di avere avuto tra il 60% e il 70% dei voti, ma ora è costretta a nascondersi in Lituania per evitare il rischio dell’arresto dopo avere costituito un “consiglio di coordinamento”.

Minsk sotto assedio e la risposta internazionale

Il 17 agosto 2020, i membri del Parlamento Europeo approvano un documento in cui affermano di non riconoscere Alexander Lukašenko come presidente della Bielorussia perché considerato persona non meritevole e, due giorni più tardi, dichiarano, insieme ai governi di Inghilterra e Canada, di non riconoscere i risultati delle elezioni, ritenute manipolate illegalmente. I ministri degli esteri di Estonia, Finlandia, Lettonia e Polonia chiedono congiuntamente una videoconferenza dell’UE per discutere una posizione unitaria del blocco sulla Bielorussia.

Vladimir Putin si schiera, invece, ancora una volta con Lukašenko, il quale fa schierare l’esercito ai confini con l’occidente. Il 23 agosto appare in due video in cui è a Minsk, davanti al palazzo dell’Indipendenza, imbracciando un mitra in segno di forza e potere intoccabile. I giornali indipendenti vengono imbavagliati, giornalisti della tv bielorussa sono dimessi o licenziati per avere partecipato ad uno sciopero contro il regime; li rimpiazzano alcuni professionisti russi.

Decine di protestanti, inoltre, vengono assaliti e arrestati ingiustamente. Non soltanto i manifestanti, ma anche i leader delle varie opposizioni politiche che si uniscono al movimento di protesta nazionale. Tutto il mondo, insomma, sta assistendo in diretta ad una vera e propria manifestazione di forza, in cui il potere viene esercitato in maniera coercitiva a discapito delle libertà e dei diritti individuali.

Martina Ratta per Questione Civile

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