Il Diritto ideale di Platone

Analisi della concezione del Diritto ideale in Platone

Continuando l’indagine iniziata nel presente Archivio nel merito del diritto naturale classico e delle sue declinazioni teoriche e pratiche, riprendiamo il contributo determinante e inconfutabile del pensiero platonico, focalizzando l’attenzione sulla sua originale e innovativa concezione del diritto, che può essere a ragione identificato e riconosciuto dagli studiosi come “diritto ideale”.

Grazie alla versatilità e alla completezza dottrinale della teoria del diritto di Platone, è possibile, dopo aver ripercorso la sua analisi nel merito del diritto di natura nel precedente articolo (clicca qui), rintracciare la concezione platonica dell’opposta faccia della medaglia, sul piano meramente speculativo, della tesi sull’idea di diritto (nómos), cioè delle leggi propriamente positive.

”Diritto nell’Antichità
– N.1
Questo è il primo numero della Rubrica di Area dal titolo Diritto nell’Antichità, appartenente all’Area di Filosofia del Diritto

La dottrina platonica tra diritto di natura e positivismo giuridico

Sicuramente la dottrina platonica ha assistito ad una fase di lento e graduale sviluppo: tant’è che dalla tesi affermata nella Repubblica, in cui l’autore manifesta una palese ostilità nei confronti della legge scritta, si passa a quella sostenuta nel Politico e nelle Leggi, in cui Platone, fornendosi di un approccio più realista, ne ha chiaramente affermato la necessità sul piano pratico.

Alla luce dell’evoluzione del suo pensiero, che sembrerebbe, solo in apparenza, allontanarlo da ciò che egli stesso sosteneva nella Repubblica in tempi più acerbi, non sarebbe cosa giusta considerare la dottrina platonica come contraddittoria, poiché le due considerazioni possono coesistere senza che l’una escluda l’altra: questo perché mentre da una parte Platone afferma e sostiene l’imperfezione teorica delle leggi per come sono intese e adoperate, dall’altra sostiene la loro necessità pratica finalizzata alla gestione dei rapporti umani e del mondo, preso per ciò che è.

La dottrina giuridica platonica come Giano Bifronte

Dunque, due posizioni, queste, che non si annullano, né tantomeno entrano in contraddizione, ma che si completano vicendevolmente, quasi in un rapporto di complementarietà di senso e di valore, che ci aiuta in maniera inequivocabile nel comprendere la concezione che Platone, pur con graduale maturazione di indagine, fornisce del diritto: esso non può essere quindi considerato o come il diritto scritto, secondo un approccio positivista, quindi privo di un valore ideale che rifletta il dikaion, ovvero la giustizia della legge, destinando il diritto a sterile scrittura finalizzata a regolare una qualche cosa, o come diritto ideale, secondo un approccio giusnaturalista portato all’estremo dell’astrazione concettuale, finendo per negare la stessa utilità e necessità pratica della norma scritta.

Il diritto per Platone è entrambe le cose, cioè qualcosa che per essere funzionale non può pretendere di non avere forma scritta, ma che al contempo non può essere cosa altra dalla giustizia, altrimenti non avrebbe alcuna autorità poiché non idonea sul piano ideale.

La forma di Stato e di governo come declinazioni istituzionali delle posizioni giuridiche

Quanto asserito sinora, è facilmente rintracciabile nelle opere sopra menzionate. Infatti, nonostante nella Repubblica sia presente la dura e, a tratti, definitiva critica dell’autore nei confronti delle legislazioni scritte, che di fatto costituisce la cornice per la teoria del “filosofo-re”, nel Politico afferma la necessità pratica delle leggi scritte: ma c’è da fare attenzione, perché questo aspetto viene considerato con un valore finalistico meramente strumentale e, per certi versi, “educativo”, che presuppone una precondizione originaria che giustificherebbe di fatto la posizione giuspositivista che Platone sembra assumere ad un certo livello della sua analisi.

Nell’opera (il Politico) possiamo rintracciare, invero, una classificazione delle costituzioni, al cui apice l’autore pone quella detta “reale”, chiamata tale poiché è l’unica in cui il filosofo è anche re, tale per cui viene considerata come la forma di Stato migliore, un regime perfetto, anche se praticamente impossibile da realizzare, se non nell’irreale ipotesi della fondazione di una nuova città-stato che abbia questo stesso assetto costituzionale o nell’ipotesi ancora più remota che un dittatore ben insediato deleghi volontariamente i suoi poteri ad un filosofo.

Certo è, però, che secondo Platone, questo regime, a differenza dei tre governi di rango inferiore, è meno durevole nel tempo ed infatti a questi ultimi corrispondono tre tipi di costituzione: monarchica, aristocratica e democratica. A queste, peraltro, corrispondono altrettante perversioni, rilevabili nel momento in cui le stesse costituzioni vengono violate da chi detiene il potere: tirannia, oligarchia e cattiva democrazia.

Il legalismo platonico come matrice pseudo-positivista

È a questo livello di analisi che Platone fornisce un’idea del concetto di “legalità” (da intendere qui più come “legalismo”, cioè come rispetto incondizionato della legge, ove il piano del dikaion ed il piano dell’applicazione della legge sono tra loro in un rapporto di disallineamento e non necessaria coincidenza), che getta le basi per una teoria di matrice positivista attraverso la constatazione oggettiva della necessità di leggi scritte.

Ad avvalorare la teoria del “filosofo-re” subentrano una serie di elementi, su cui l’autore preso in esame si è particolarmente soffermato, alcuni dei quali ci sono utili nella nostra indagine per comprendere qualcosa in più sull’origine del diritto per Platone.

Il dikaion, per l’appunto, non dovrebbe derivare dalla volontà popolare (posizione che lo pone in netta distanza dalle odierne teorie volontaristiche e del “contratto sociale” su cui è basato il lavoro filosofico di Jean Jacques Rousseau nel suo “Du contrat social: ou principes du droit politique”, del 1762): infatti, egli ritiene nulle e prive di valore le deliberazioni dell’assemblea popolare.

Le leggi, e dunque il diritto, provengono dall’alto, più precisamente dal filosofo che se non può farsi re, deve farsi necessariamente legislatore, affinché possa, una volta per tutte, costruire un sistema completo basato sull’autorità, poiché l’idea perfetta del giusto non può essere comunicata alla massa, in accordo con il principio latino ulpianeo “quod principi placuit, legis habet vigorem”.

Proprio per questo, sarebbe giusto che il legislatore ricorra alla persuasione nei riguardi dell’élite dei cittadini, facendo precedere le leggi, per quanto possibile, da un preambolo, finalizzato appunto all’opera di convincimento della classe dominante della città-Stato; mentre i cittadini più rozzi e manchevoli di capacità di comprensione della legge e della giustizia dovranno rispettare i syggrammata (le norme scritte) per coercizione: solo così, secondo Platone, il popolo può partecipare alla giustizia del filosofo, incarnata dalla mediazione delle leggi, anche se non perfetta, poiché “copia del giusto”.

Infatti, le leggi umane in quanto leggi scritte hanno come massima aspirazione quella di “copiare il giusto”, cioè di avvicinarsi al “dikaion” proprio del diritto di natura, emularlo, senza mai sostituirlo o raggiungerlo pienamente, poiché la legge degli uomini è imperfetta nella sua matrice ontica, in quanto legge scritta da esseri finiti e limitati, continuamente soggetti alle perversioni sensibili del corpo e della mente.

In accordo con quanto detto poc’anzi, il filosofo, per quel che strettamente gli riguarda, non sarebbe tenuto ad osservare le leggi, poiché queste non possono obbligare colui che le ha poste. Questa posizione di Platone ha di fatto anticipato sul piano concettuale un altro principio ulpianeo menzionato nel Digesto di Giustiniano, ossia il principio del “princeps legibus solutus”, e ripreso successivamente dall’imperatore Vespasiano e reso legge nel suo “Lex de imperio Vespasiani” del 69 d.C.

Le leggi scritte come copia del giusto

In accordo con la concezione platonica di “diritto ideale”, il popolo, che non ha alcuna conoscenza di filosofia, che non sa nulla della giustizia, è tenuto alla rigorosa ubbidienza delle leggi, ma finché il filosofo si fa solo legislatore, non si può parlare di regime perfetto: assume, invero, le fattezze di un regime inferiore, non il peggiore, s’intenda, poiché la legge, in questo caso, non è perfetta ma semplice “copia del giusto”, fintanto che il filosofo sarà legislatore e non re. A tal proposito, Platone critica aspramente i regimi inferiori (monarchia, aristocrazia e democrazia) poiché afferma di stupirsi nel vedere come le città riescano a sopravvivere ridotte alla passiva accettazione di un surrogato così mediocre della vera giustizia.

Dopo aver discorso riguardo al dikaion, che è il vero diritto, Platone si sofferma sulla dikastité, l’arte giudiziaria, esattamente paragonabile a come funziona nelle attuali comunità politiche degenerate.

Appare di facile intuizione lo sconfinamento interpretativo della teoria platonica sul diritto nel positivismo giuridico, d’altronde non è un caso che gli imperatori romani prima e molti sovrani assoluti poi, abbiano interpretato a loro profitto il suo pensiero, trovando in esso la giustificazione dell’esercizio del potere assoluto e degli stessi regimi dittatoriali: infatti, risulterebbe semplice e, per certi versi, quasi scontata, l’errata interpretazione in malafede, secondo cui, in assenza del filosofo-re, si affida il diritto alla dittatura di un principe Ma ciò, a mio modesto parere, è una conseguenza naturale e inevitabile dell’incapacità interpretativo-analitica e della “presunzione sapienziale” che ha accecato gli animi dei sovrani o degli studiosi che si sono cimentati nelle letture platoniche, dandone un’interpretazione totalmente fuorviante e lontana anni luce dalla teoresi filosofico-giuridica di Platone.

Conclusioni

Dunque, è innegabile che la teoresi platonica si presenti come troppo ideale, utopistica ed esigente sul piano pratico ed è altrettanto innegabile il suo carattere esclusivamente unilaterale, che, per raggiungere la tanto agognata armonia sociale, finisce per eclissare la pluralità e l’individuo in quanto tale: anche le classi lavoratrici, dunque la maggioranza del popolo, finiscono per essere totalmente sacrificate per fare spazio al primato della speculazione filosofico-giuridica di pochi o di uno solo, nel caso del filosofo-re.

Nonostante queste e tante altre critiche che si possono a ragione sollevare, ma sulle quali non intendo soffermarmi, rimane incontrovertibile il fatto che la dottrina gius-filosofica di Platone e la sua concezione del diritto (come diritto ideale) rivesta un ruolo cardine nella storia e nella filosofia del diritto classica, in quanto essa rappresenta ed incarna perfettamente lo spirito ideale e utopistico a cui si rifaranno innumerevoli dottrine giuridiche e politiche rivoluzionarie nel corso dei secoli.

E con questo, siamo giunti alla fine di questo breve ciclo di approfondimenti e ricerche sulla dottrina giuridica platonica, con la speranza di aver avvicinato sempre più lettori a queste tematiche, seppur complesse, comunque fondamentali per la dottrina dello Stato e delle istituzioni e per il percorso speculativo della teoresi filosofico-giuridica che getta le sue radici molto molto lontano, ben prima dell’epoca moderna, comunemente intesa.

Alessio Costanzo Fedele per Questione Civile

Bibliografia

Parte degli articoli pubblicati nel presente archivio sono estratti del mio lavoro sperimentale dal titolo “Lo Stoicismo giuridico di M. T. Cicerone”, che rientra nell’area scientifico-disciplinare della filosofia del diritto, completata il 20 marzo 2020. Uno dei principali testi che ho adottato per la ricerca, lo studio e la stesura del lavoro è “La formazione del pensiero giuridico moderno” (1986, Editoriale Jaca Book spa, Milano) di M. Villey.

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