Il figlio dell’uomo: madri, padri, genitori

Il figlio dell’uomo: essere genitori, essere figli

«Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino». È uno degli incipit più famosi della letteratura italiana contemporanea, ma non è da qui che cominceremo per arrivare all’avere un figlio, all’essere un figlio. Torniamo indietro di un po’ di pagine: Calvino introduce la ristampa del suo metaromanzo con la prefazione Se una notte d’inverno un narratore.

Scorrendola in fretta, troviamo a colpo d’occhio ciò che Calvino ripesca dal Sofista di Platone, lo “schema ad alternative binarie”. Ovvero, un diagramma a cascata in cui, posta una questione iniziale, si aprono due possibilità di cui una si chiude mentre una seconda si apre nuovamente a due altre possibilità, in una consequenzialità potenzialmente infinita.

Ora, così come Calvino “ruba” da Platone questo schema logico così splendido nella sua chiarezza, lo stesso facciamo noi, usandolo come traccia per l’argomento di discussione: essere genitore, essere figlio.

Molto meno ampio di Calvino e molto meno preciso, il nostro schema parte da una possibilità che dipaneremo per tre livelli provando, infine, a tirare le fila, sperando che la matassa non si imbrogli. Se il campo d’azione di Calvino sono dieci incipit, noi scegliamo il nostro orizzonte prediletto, la cinematografia, cercando di ricordare come, per quanto quelli siano i figli degli altri, abbiamo noi stessi come metro di paragone per capire quanto il cinema sia sempre labirinto di possibilità veritiere

Scoperta: avremo un figlio?

Gelida è la tavoletta della tazza sotto le gambe di una donna che tremano per il freddo e per l’ansia di scoprire tra pochi secondi se sta per diventare madre.

È così che molti film presentano l’approccio alla genitorialità: una madre, spesso sola, spesso giovane che si ritrova ad essere in «dolce attesa» quando di “dolce” nell’avere un figlio non ci trova nulla. È così, ad esempio, ne Il vizio della speranza di Edoardo De Angelis, in cui una grigia Pina Turco da traghettatrice di extra-comunitarie il cui compito nella società sarà quello di porre al servizio di ricche matrone il loro utero, si ritrova suo malgrado a “traghettare” un figlio dentro di sé.

Non bisogna necessariamente spingersi verso degradanti luoghi per osservare come una società “civile” possa far pesare ad una donna l’essere incinta. Luciana (Paola Cortellesi) un figlio lo vorrebbe pure, ma tutto ciò che le gira intorno sta in un precario equilibrio che crolla inesorabile non appena la notizia di un figlio salta di bocca in bocca. Una notizia che arriva fino al datore di lavoro di Luciana, figlio, lui, di un’Italia in crisi in cui la classe dirigenziale non cede di un passo, e che decide di non rinnovarle in contratto.

Luciana un figlio lo vorrebbe pure ma per portare questo peso deve bilanciarlo con un altro, stavolta sulla coscienza e non sulla pancia: Luciana corre di notte in azienda e punta ai dirigenti in riunione una semiautomatica. La storia di Luciana e un figlio che arriva la racconta Massimiliano Bruno ne Gli ultimi saranno ultimi.

Bruno racconta di come cambi la società; di come il lavoro, gli interessi e persino la maternità sembrino muoversi continuamente, eppure le persone – unici depositari del cambiamento – non rinuncino neanche ad uno dei loro vantaggi. Ne Gli ultimi saranno ultimi un figlio non è una nuova vita, ma solo un’altra bocca che questa società troppo stretta dovrà sfamare. Forse per questo Luciana punta la pistola pure su sé stessa: una vita per una vita, così c’è posto per tutti.

Paola Cortellesi in Gli ultimi saranno ultimi (2015)

Volontà: abbiamo un figlio

Torniamo allo schema binario: il primo ramo si apre verso il non volere un figlio o ancora, volerlo e dover accettare che questo figlio sarà un peso per tutto ciò che ho e che sono. Il secondo ramo vedrà quindi il volere un figlio, ed è questo ramo ad aprirsi nuovamente, sull’imparare. In fondo, quando si cresce un figlio non si fa altro che insegnargli a stare nel mondo, e d’altra parte, nessuno ha mai imparato a fare il genitore fino a quel momento. Ed è nell’imparare a fare i genitori che si spendono Nicola (Valerio Mastrandrea) e Sara (Cortellesi) in Figli di Mattia Torre. Nicola e Sara si amano, discutono e sono spesso vittime, per colpa di Nicola, di retaggi patriarcali sulla gestione domestica e l’educazione dei figli.

Ma a stringere Nicola e Sara nel loro amore è il desiderio di imparare ad essere dei buoni genitori, specialmente quando i figli diventano due. Paradossalmente, Nicola e Sara si ritrovano a comprendere come ci sia chi non ha mai imparato a fare da padre e da madre: i loro stessi genitori.

Boomer, etimologicamente intesi, che dovranno essere dei nonni adeguati, stampella scheggiata dall’età ma non ancora marcia, vengono scoperti per quello che sono: un legno pieno di tarli, figli del boom economico che conoscono solo condoni fiscali e speculazione economica e sentimentale. Nicola e Sara, piuttosto che appoggiarsi su di loro, immaginano spesso di lanciarsi dal balcone di casa propria. Degli immaginari “suicidi” nevrotici, con i quali Mattia Torre ci ricorda come imparare sia tanto frustrante ed estenuante che alla fine ti rendi solo conto che non arriverai mai: ma non bisogna arrivare per essere competenti.

Imparare, non imparare. Riuscire, fallire.

I figli d’arte sono una categoria spesso bistrattata. Ma qui, al contrario, ad interessarci è una categoria tutta nuova: i “genitori d’arte”. Nulla più che genitori di piccoli artisti che si ritrovano immersi in un pubblico, in un successo e in un denaro che non sono i loro e forse sognavano di avere.

Esempi concreti si fa difficoltà a trovarli, ma di esempi cinematografici qui ci serviamo: Sam (Natalie Portman), madre di Rupert che sta per varcare la soglia dello star system, e James (Shia LaBeouf), padre di Otis, una dodicenne star televisiva.

Un genitore-manager costretto a cedere il posto a idoli che di educativo non hanno nulla; costretto a rinunciare ad ogni piccola regola domestica perché suo figlio per casa ha il camerino o una stanza d’hotel; costretto a far venire meno sé stesso, non senza una certa dose di invidia per chi, a differenza loro, non è diventato solo un “adulto mediocre”. Sam e James hanno figli diversi e pellicole diverse: La mia vita con John F. Donovan di Xavier Dolan per Sam, Honey Boy di Alma Har’el per James.

Ne La mia vita con John F. Donovan a Rupert una madre non servirebbe neppure: ha un unico mentore, John Donovan. In teoria amico di penna, la star cinematografica si ritrova nella pratica a influire inconsapevolmente sulle scelte di un bambino. Ma Sam la madre la sa fare, e riesce a far distinguere a Rupert chi è lontano da chi ha vicino. Una madre capace di capire che per quanto sia necessario avere un essere diverso da un apparire, il figlio deve imparare a riconoscere la differenza.

E James di Honey Boy, invece? A fallire è proprio lui, finendo per perdere ogni contatto ed ogni dialogo con suo figlio Otis.

Shia LaBeouf (a destra) e Noah Jupe in Honey boy (2019)

Essere figlio

Ma siamo sicuri che il fallimento sia tutto nel genitore? Perché è dal primo ramo dello schema che una coltre di dubbio ci impedisce di vedere la responsabilità. Genitori, forse, non lo saremo tutti ma figli, per forza di cose, sì. E per quanto sia noioso sopportare regole e rimproveri, ad un compito non ci si può sottrarre: permettere ai genitori di adempiere al loro dovere. Non si può star fermo al proprio capo del ponte e aspettare che sia uno di loro a barcollare per le assi.

Per fare i figli, sul ponte qualche passo va fatto. E per quanto forte sia la tentazione di farlo traballare, se si è sul ponte non si avrà l’interesse a farlo cadere, perché insieme alla madre, al padre e all’odio, nel baratro cadremmo noi stessi.

Sul ponte un passo non lo fanno né Otis né Rupert: la differenza sta in un padre forse troppo condiscendente che a metà del ponte torna indietro e in una madre che pur di raggiungere quel figlio, così occupato a guardare l’idolo di pietra, lo trascina sul ponte per mostrargli quanto anche lui sia figlio dell’uomo.

Salvo Lo Magno per Questione Civile

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