Il Mito della Caverna: quando l’uomo diventa filosofo

il mito della caverna

Il mito della caverna: la genesi del filosofo secondo Platone

Il Mito della Caverna è una nota allegoria platonica contenuta all’inizio del libro VII de “La Repubblica”. Questo titolo deriva dal greco “Politéia”, più precisamente tradotto come “La Costituzione”. Si tratta di una fra le più importanti opere del filosofo ateniese, scritta in forma di dialogo tra il 380 e il 370 a.C. Attraverso La Repubblica, Platone espone la sua concezione di Stato ideale.

Protagonista dell’opera dialogica è Socrate, vecchio maestro di Platone, per la cui bocca il discente suole esporre le proprie dottrine. All’inizio del primo dei dieci volumi che compongono La Repubblica, il filosofo siceliota Polemarco ferma Socrate mentre sta rincasando dal Pireo, il porto di Atene, e lo invita a casa propria. 

Qui Socrate, in compagnia dei padroni di casa Cefalo e Polemarco e dei fratelli maggiori di Platone, Glaucone e Adimanto, discute diverse importanti tematiche. Fra di esse, grande spazio trovano argomenti etico-politici, sopra tutti quello della giustizia e della possibile struttura di uno Stato ideale, che Platone chiamerà “Kallipolis”.

La società ideale che Platone descrive attraverso Socrate è ripartita in tre principali classi sociali: quella Bronzea dei lavoratori, quella Argentea dei guardiani e, infine, quella Aurea dei governanti-filosofi. Sono, dunque, i filosofi che, secondo Platone, per via della loro elevata sensibilità e saggezza, risulterebbero i migliori governanti, in grado di preservare l’ordine sociale secondo le idee di bene e giustizia.

Data la centralità, all’interno dell’opera, della figura del filosofo, protagonista e garante dell’ordine e del governo della Kallipolis, Platone ne descrive la genesi. Lo fa attraverso la sua teoria della conoscenza, esposta con l’uso di due espedienti: la metafora della linea, più prettamente didascalica e di preparazione al secondo, e il Mito della Caverna.

Socrate, dunque, narra a Glaucone come un uomo, prigioniero della propria ignoranza, possa assurgere alla conoscenza del sommo bene e divenire filosofo.

Il mito della caverna: la storia di un prigioniero

La torbida oscurità d’una caverna. Le mani legate strette dietro la schiena, gli arti intirizziti per la lunga prigionia. Tale, secondo Platone, è la condizione di ogni uomo sulla terra che non si sia mai posto domande, che non abbia mai messo in discussione la propria opinione. Ma quando nasce un filosofo?

La caverna, il fittizio regno dell’opinione

Immaginate di trovarvi in una profonda caverna. Tuttavia, l’ambiente che vi circonda non è completamente buio, una lieve luminescenza in qualche modo lo rischiara, e sul muro che avete davanti riuscite a discernere delle ombre. Siete incatenati e seduti in terra.

Non potete alzarvi, non potete girarvi o guardarvi intorno, poiché avete collo e arti bloccati. Non avete idea di quanto vasta sia la caverna in cui vi trovate, né di cosa ci sia davvero dietro di voi. Dal contatto con la pietra, però, intuite la presenza di una parete.

Se foste nati e cresciuti in questa caverna, tutto ciò che conoscereste sarebbero quelle ombre proiettate davanti a voi. Quelle ombre, anche se fittizie, sarebbero la vostra unica verità. Ed è in quelle ombre che Platone rintraccia la conoscenza illusoria di chi nella vita mai si pone domande, di chi si accontenta di assumerla passivamente da fonti esterne.

La caverna è, così, nella metafora di Platone, il regno della dòxa (δόξα), cioè dell’opinione inconsistente, che si basa solo sull’esperienza sensibile, immediata e contingente. Opposta a questa è l’epistème (επιστήμη), la conoscenza intelligibile, cioè la conoscenza delle cose in sé, delle idee, che Platone identifica come origine vera del mondo sensibile.

Secondo Platone, la dòxa è la prima forma di conoscenza che l’uomo assume. Ed è una conoscenza illusoria, derivata da quanto l’uomo è in grado di osservare in modo passivo intorno a sè. Quella che le ombre della caverna offrono, in particolare, costituisce l’eikasìa (εἰκασία), cioè l’immaginazione. L’eikasìa è la forma di conoscenza che si fonda sulle manifestazioni di oggetti visibili.

Le ombre, come i miraggi, le illusioni ottiche e i riflessi, sono proiezioni di oggetti visibili, non già propriamente oggetti, e dunque costituiscono la forma di conoscenza più incerta e variabile.

Immagine presa da: nalub7.wordpress.com/2016/02/05/disenchantment-and-the-caves-mith/

L’ascesa dalla caverna: il risveglio del filosofo

Eppure, – Platone afferma attraverso Socrate – se per qualche ragione un prigioniero riuscisse a liberarsi, sarebbe in grado di vedere che, sulla sommità della parete dietro di lui, sono degli oggetti a proiettare quelle ombre. Questi oggetti, sorretti da uomini nascosti dietro al muro, sono statuette di persone, piante, animali e delle cose più varie.

Il prigioniero, che liberato dai lacci diviene filosofo in quanto ricercatore della verità, assume ora una conoscenza lievemente superiore. Con la contemplazione delle statuette, infatti, passa dall’immaginazione (εἰκασία), che si basava sulle ombre, alla credenza (πίστις).

Tuttavia, queste statuette hanno solo sembianza degli enti veri e propri, che invece si trovano nel mondo esterno, e il filosofo, finché si trova nella caverna, è ancora sotto il dominio della dòxa. Così, una conoscenza che le ponga a proprio fondamento non è ancora una conoscenza compiuta, e il filosofo deve continuare il suo viaggio.

Il prigioniero, allora, aggira il muro che in origine era alle sue spalle e scopre un fuoco, in cui riconosce la fonte della luminescenza che rischiara la caverna. Il fuoco, però, è solo una flebile immagine del sole, vera fonte di ogni luce e conoscenza.

Più oltre, il prigioniero liberato incontra finalmente l’uscita della caverna.

È un momento importante, quello dell’ascesa del filosofo al mondo esterno, che metaforicamente rappresenta l’elevazione della sua anima al mondo intelligibile. Cioè il mondo conoscibile solo attraverso l’uso della ragione, e non attraverso la percezione sensibile.

Al contempo, però, è anche un momento molto doloroso, dato che i suoi occhi non hanno mai visto la vera luce del sole. Così, all’inizio ne resta abbagliato.

 Il mondo esterno alla caverna: la contemplazione delle idee

Accecato dalla grande luce, il filosofo inizia ad osservare il mondo esterno attraverso le immagini degli enti riflesse negli specchi d’acqua. È solo con il passare del tempo che, infatti, egli potrà abituare i suoi occhi a tal punto da contemplare le cose direttamente.

In questa fase, cioè nel passaggio dall’osservazione dei riflessi delle cose alle cose stesse, vi è un ulteriore innalzamento della conoscenza del filosofo. Egli raggiunge ora la conoscenza razionale discorsiva (διάνοια), ossia quella mediata dalla ragione.

Una volta in grado di osservare gli enti del mondo esterno, metafora delle idee platoniche, il filosofo può approdare al mondo della pura intellezione, cioè a quella conoscenza che Platone definisce intuitiva (νόησις). Lo fa, dapprima, scrutando le luci del cielo notturno, la luna ed il firmamento, per poi arrivare a guardare il sole direttamente.

Il sole rappresenta, nel mito, la somma idea, quella del bene, che rischiara tutte le cose e diffonde in esse verità e sapienza.

Il ritorno alla caverna: la derisione del filosofo

Al cospetto di una simile visione, l’istinto del filosofo di condividere la sua scoperta con gli altri uomini e di liberarli dalla loro prigionia si fa incontenibile. Torna, dunque, nelle sordide profondità della caverna fino a raggiungere i propri compagni. Ora, però, la luce del mondo esterno a cui si è abituato non gli permette più di riconoscere come prima le ombre proiettate sul muro.

Così, quando annuncia agli altri uomini le sue scoperte, ne ottiene solo incredulità e derisione, nonché l’accusa di essere tornato dal suo viaggio con gli occhi rovinati.

Pertanto, il filosofo è costretto a discutere sulle ombre delle cose che egli aveva contemplato con i propri occhi, e riabituarli alla loro visione, per poter essere ascoltato dai propri simili. Di rado viene creduto e, alle volte, i suoi simili lo osteggiano a tal punto da ucciderlo.

L’oscurità della caverna, infatti, può apparire quasi una sicurezza, un sordido rifugio di torpore, se confrontata al doloroso cammino del filosofo, che abbandona ogni illusoria certezza per consacrare la propria vita alla ricerca della verità.

Il mito della caverna, una metafora sempre attuale

Nel pensiero e nelle espressioni artistiche di ogni tempo riecheggiano storie di uomini che, liberati dalle catene dell’opinione, scoprono verità che poi tornano a rivelare ai propri compagni, non sempre ricevendone elogi.

Diverse opere cinematografiche, anche semi-attuali, riprendono il mito della caverna, quali ad esempio The Matrix, Arancia Meccanica e The Truman Show.

È la storia di un viaggio interiore, di un’esperienza che ogni uomo può compiere nella sua vita. Perché la ricerca della verità è una tensione insita nell’animo umano e resterà, inevitabilmente, sempre attuale.

Gabriele Todaro per Questione Civile

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