Julian Assange: un amaro silenzio che fa rumore

Julian Assange

Julian Assange oggi: una lenta agonia nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh

Non è passato un anno dall’ultimo articolo, pubblicato in questo Archivio, riguardante la persecuzione giudiziaria a danno di Julian Assange. Oggi, alla luce degli sviluppi giudiziari verificatisi di recente, si intende trarre le somme ed analizzare quali possibili sviluppi potrà avere il processo mosso contro il fondatore di WikiLeaks.

“Diritto alla verità e ragion di Stato: WikiLeaks, Assange e il caso Snowden”
-N. 5
Questo è il quinto numero della Rubrica di Area dal titolo “Diritto alla verità e ragion di Stato: WikiLeaks, Assange e il caso Snowden”appartenente alla Macroarea di Affari Esteri ed Economia

La detenzione a Belmarsh

Non è cambiato nulla dal 1° maggio 2019, giorno in cui Julian Assange venne arrestato e portato nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, in Inghilterra. Lui oggi è ancora lì. Le sue condizioni di salute sono peggiorate, a tal punto che lo stesso Nils Melzer, relatore speciale delle Nazioni unite sulla tortura, più volte espressosi sul caso Assange, ha denunciato pubblicamente che l’uomo mostra segni evidenti di torture psicologiche.

“Il signor Assange non è un condannato a morte e non rappresenta una minaccia per nessuno, quindi la sua prolungata reclusione in una prigione di massima sicurezza non è né necessaria né proporzionata e chiaramente manca di qualsiasi base giuridica”. (N. Melzer)

Quello riservato ad Assange è ormai confermato come un trattamento inumano e degradante, utile soltanto per distogliere l’attenzione mediatica dai pesanti scandali venuti a galla grazie alla pubblicazione dei dossiers sulla piattaforma WikiLeaks. Già, perché è molto più facile accanirsi contro un uomo piuttosto che analizzare i documenti pubblicati. E così, la privazione dei diritti fondamentali diviene molto più facile senza un’opinione pubblica che guarda e sentenzia.

Proprio per il fatto di aver pubblicato documenti che attestano violazioni dei diritti umani, crimini di guerra ed uccisioni stragiudiziali a proprio carico, gli Stati Uniti hanno richiesto l’estradizione dell’uomo. Una violazione dell’Espionage Act, questo è il motivo che giustificherebbe un tale accanimento giudiziario. Se Assange verrà estradato negli Stati Uniti, rischia una condanna a 175 anni da scontare nel carcere americano più estremo, l’ADX Florence, in Colorado, dove sono rinchiusi criminali del calibro del re del narcotraffico, El Chapo Guzman. Il processo d’appello per decidere sull’estradizione ha avuto inizio il 27 ottobre, a Londra, ma ci vorranno mesi per attendere la sentenza.

Julian Assange ed il rischio di estradizione

Nello scorso gennaio, il giudice inglese Vanessa Baraitser si era già espressa riguardo l’estradizione richiesta dalle autorità americane, rigettandola. La decisione si poggiava sul fatto che l’estradizione avrebbe peggiorato ulteriormente le gravi condizioni di salute e psichiche di Assange. La durezza del trattamento che gli sarebbe stato riservato nel carcere americano, unito all’isolamento forzato ed all’assenza di tutele giuridiche, avrebbero potuto indurre l’australiano ad atti estremi come il suicidio. Ma gli Stati Uniti non mollano, facendo appello contro questa sentenza di primo grado, mettendo in discussione lo stato di salute di Assange e le perizie psichiatriche presentate dalla difesa.

Il processo di appello, dunque, è necessario per decidere ancora una volta sulla richiesta di estradizione. È indubbio, però, che a favore della difesa di Assange svolgono un ruolo fondamentale le ultime notizie emerse dai maggiori canali di informazione. Una di queste è sicuramente l’inchiesta di Yahoo! News, la quale riporta la testimonianza di circa trenta funzionari dei servizi e della sicurezza americana. Nel dettaglio, essi parlano del tentativo di rapimento ed omicidio di Julian Assange mentre si trovava nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, come rifugiato politico.

Fin dove uno Stato è disposto a spingersi?

Prelevarlo con la forza, rapirlo ed ucciderlo. Sarebbe stato questo il gesto estremo di un paese denudato di tutti i suoi scandali più profondi e pericolosi. Un’amministrazione arriverebbe ad uccidere un singolo uomo pur di evitare il caos mediatico. A guidare il gruppo formato da agenti della Cia e funzionari c’era Mike Pompeo, allora direttore dell’Agenzia e diventato poi segretario di Stato sotto la presidenza di Donald Trump.

A muovere l’azione di Pompeo e di chi si schierò dalla sua parte furono le pubblicazioni su WikiLeaks che vennero chiamate Vault 7, le quali consistevano in materiale classificato sottratto ai server della Cia. Vault 7 porta con sé un’enorme mole di prove a testimonianza del fatto che le agenzie di intelligence americane detengono strumenti atti sia alla penetrazione informatica, sia all’intercettazione della maggioranza delle comunicazioni che avvengono sulla rete. Argomentazioni che facilmente richiamano quanto dichiarato più volte da Edward Snowden, altro protagonista di questa importante vicenda (per saperne di più, clicca qui).

Insomma, si trattava della più grande fuga di notizie nella storia dell’Agenzia americana. Così, a poche settimane dalla pubblicazione dei primi file segreti, il direttore della Cia dichiarò pubblicamente WikiLeaks “un servizio di intelligence ostile non statale”. Da quel momento WikiLeaks ed Assange non erano più un’organizzazione in lotta per la trasparenza e la libertà di stampa, ma un gruppo di agenti stranieri che operavano sostenuti dai nemici degli Stati Uniti, e per questo dovevano essere trattati come servizi di spionaggio avversari. Ragion di Stato?

Ai più alti livelli dell’amministrazione Trump si discusse l’attacco. Si decise di rapire Assange dalla sede diplomatica in cui si trovava e riportarlo di nascosto negli Stati Uniti attraverso un paese terzo, un’azione nota come rendition. Tuttavia, il piano avrebbe sicuramente creato una tempesta diplomatica e politica tra Stati Uniti, Australia e Regno Unito.

Julian Assange: un processo contro la libera informazione?

La difesa di Julian Assange è formata da un gruppo di avvocati di alto profilo. Gareth Peirce, una delle più grandi legali inglesi esperta di diritti umani, lo spagnolo Baltasar Garzon che lavorò per arrestare il dittatore cileno Pinochet, Edward Fitzgerald, Jennifer Robinson e Mark Summers.

Durante le udienze, come testimoniato dai giornalisti che hanno assistito al processo, Assange è evidentemente provato. La pelle grigiastra, gli occhi stanchi. È presente in aula, ma è chiuso in una gabbia di vetro, così che è difficile ascoltare l’udienza e comunicare con gli avvocati. Non esiste giustizia per uno come Assange. La stampa inglese, dal giorno in cui l’australiano è detenuto nel carcere di Belmarsh, scrive a malapena del caso, come se Julian Assange sia paragonato ad uno dei peggiori criminali che non merita attenzione.

È noto, inoltre, che prima dell’inizio del processo gli sono stati requisiti i documenti utili per prepararsi per l’udienza, è stato denudato due volte per essere perquisito, ammanettato undici volte e spostato in cinque diverse celle di detenzione.

“Sono in grado di partecipare a questo procedimento penale tanto quanto potrei farlo di fronte ad una partita a Wimbledon. Non posso comunicare in modo significativo con i miei avvocati. Ci sono funzionari dell’ambasciata senza nome in quest’aula di tribunale. Non posso comunicare con i miei avvocati o chiedere loro chiarimenti senza che l’altra parte lo veda. I miei avvocati sono già stati spiati abbastanza. L’altra parte ha circa 100 volte più contatti al giorno con i suoi avvocati. Qual è il punto di chiedere se posso concentrarmi se non posso partecipare?” – J. Assange durante l’udienza del 26 febbraio 2021

L’attesa della sentenza

Conclusosi il 28 ottobre 2021, il processo d’appello non ha ancora prodotto una sentenza definitiva sul caso. I giudici, affermando di avere materiale a sufficienza da analizzare, emaneranno la sentenza nelle prossime settimane. C’è chi sussurra che non è da escludere la possibilità di dover attendere anche mesi.

Nonostante i ripetuti tentativi di oscurare la vicenda, Julian Assange oggi non è più un uomo solo. Sono molti i movimenti nati per sostenere il fondatore di WikiLeaks e dare voce alla sua storia. La storia di uomo che per il diritto alla libertà di informazione sta marcendo in un carcere. Si potrebbe dire che non si è più così tanto lontani dal conoscere il destino riservato a Julian Assange. La sentenza d’appello sarà fondamentale per capire il suo futuro. Un futuro, tuttavia, che Julian Assange non sarà libero di autodeterminarsi, ma che gli verrà imposto, con il pericolo che potrebbe non essere quello sperato.

Martina Ratta per Questione Civile

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