Lo sciopero legalitario: come le violenze squadriste diedero il colpo di grazia alla sinistra italiana
Nella storia d’Italia, pochi anni furono tragici quanto il 1922. Dopo la fine della Grande Guerra, in Italia le morti e le violenze continuarono, stavolta sul fronte interno. Prima il “biennio rosso” (1919-1920), caratterizzato da numerose occupazioni operaie, e a seguire la reazione del “biennio nero” (1921-1922). Gli squadristi, grazie all’inerzia dello Stato Liberale e talvolta con la complicità delle forze dell’ordine, annichilirono ogni resistenza, spianando la strada che li avrebbe condotto alla Marcia su Roma. Il picco della violenza venne raggiunto nell’agosto 1922, durante il cosiddetto “sciopero legalitario”.
Il clima politico prima dello sciopero legalitario
È impossibile spiegare il 1922 senza far capire il contesto generale. Il biennio rosso, spesso affrontato sbrigativamente dai manuali scolastici, per i contemporanei fu un vero e proprio trauma. In quei giorni frenetici, molti membri della classe operaia, ma anche liberali come Luigi Albertini (allora direttore del “Corriere della Sera”) si aspettavano di lì a poco una rivoluzione in stile bolscevico, stavolta in Italia. Una prospettiva auspicata dai primi, ma temuta dai secondi.
Il Partito Socialista era dominato in quel momento dalla corrente massimalista, un gruppo di dirigenti che rifiutava ogni sorta di compromesso con lo Stato Liberale ed attendeva la “Rivoluzione” con un’aspettativa quasi messianica. In realtà, non andarono mai al di là delle parole. In parte perché credevano che lo Stato Liberale sarebbe crollato da sé, in parte perché una vera rivoluzione non sapevano come ottenerla.
Chi ha studiato il crollo dell’Impero Zarista sa bene che a causare la Rivoluzione furono numerosi fattori, alcuni di lungo termine (debolezza dell’apparato statale, tensioni etniche, ecc.), altri di breve termine (la sconfitta militare dell’Impero Russo ed il conseguente disfacimento dell’esercito). Un pugno di operai che occupa una fabbrica armi alla mano non scatena una rivoluzione. Il “biennio rosso” si sarebbe concluso con alcune concessioni date agli operai, ma i socialisti persistettero nel rifiutare ogni collaborazione con lo Stato.
La paura provata in quei mesi fatali dalla classe liberale è vitale per spiegare l’atteggiamento tenuto durante la violenta reazione fascista: per tutto il 1921 ed il 1922, le loro violenze furono in larga parte giustificate come una doverosa reazione alle violenze rosse. Giornali come il “Corriere della Sera” contribuirono notevolmente nel coprire e minimizzare le azioni squadriste.
Fascismo agrario fino allo sciopero legalitario
Alle sue origini, ben pochi avrebbero scommesso sul successo dei “fasci di combattimento”. fondati nel 1919 da Benito Mussolini, agli albori erano un guazzabuglio di tendenze e orientamenti diversi, dai futuristi ai repubblicani, dai socialisti agli interventisti. Un movimento prettamente cittadino che sembrava destinato a morire. Alle elezioni politiche del 1919, il movimento ottenne poche migliaia di voti e nessun eletto. Una débâcle assoluta.
A cambiare tutto furono essenzialmente due fattori: Giolitti ed il “fascismo agrario”. Il primo, perché li coinvolse nel suo governo, ed il secondo perché diede nuova linfa ad un movimento che Mussolini credeva non sarebbe mai uscito dalle grandi città. La paura provata dai ceti più conservatori e dai proprietari terrieri durante il “biennio rosso” si unì alla voglia di rivalsa contro le organizzazioni socialiste, le quali nel tempo avevano eroso il potere dei possidenti:
“Il proprietario agrario era stato per lunghi anni il padrone assoluto del paese, il capo del Comune, il dirigente di tutte le istituzioni pubbliche locali e provinciali. È eliminato dappertutto. In campagna deve fare i conti con la lega e con l’ufficio di collocamento; sul mercato, con la cooperativa socialista che fisse i prezzi; nel Comune, con la lista rossa, che passa con maggioranza schiacciante. Non più profitti, onori, potere, né per lui, né per i suoi figli. Un odio profondo si accumula, aspettando il momento di sfogarsi…”.
Molti proprietari iniziarono così a rivolgersi alle cosiddette “squadre”, che cominciarono ad assaltare sindacalisti, cooperative, lasciandosi alle spalle morti e devastazioni nelle campagne del Centro-Nord Italia. Queste squadre nacquero indipendentemente da Mussolini (sebbene si rifacessero a lui ed al suo giornale, “Il Popolo d’Italia”), ed egli faticò ad imporsi come “leader”, non avendo per molto tempo un controllo diretto sulle stesse (minacciando persino di lasciare il fascismo).
Un esempio di violenza
Un esempio lampante è quello riportato fra le carte della Regia Procura di Cremona e datato 18 gennaio 1921. Scrive il Questore che quel giorno, verso le 11 di mattina, un gruppo di contadini stava lavorando la terra, quando all’improvviso sopraggiunse Giuseppe Vezzini, fittabile della cascina, accompagnato dai fratelli Angelo e Carlo. Senza ragione, iniziarono a provocare i contadini, i quali però non reagirono. Allora il Vezzini, avvicinandosi ad uno dei contadini, Antonio Cappelli, estrasse la rivoltella: la puntò alla sua faccia, e disse “Uno alla volta vi metto a posto tutti!”, e quindi si allontanò con i fratelli. I Vezzini tornarono in Cascina alle 15, stavolta accompagnati da due camion con cento uomini, armati di bastoni e pistole, che irruppero nella cascina sparando all’impazzata.
Il loro obiettivo era uccidere un altro contadino, Pietro Mazzolari, il quale però era riuscito a fuggire. Gli aggressori devastarono buona parte della sua casa, ma non avendo trovato la loro preda, se andarono dopo circa un’ora, insultando donne e bambini che erano rimaste sul posto (gli uomini erano al lavoro nei campi). Sulla strada, spararono ad un altro gruppo di contadini incontrato poco più avanti. Durante la loro permanenza, gli assalitori, alcuni dei quali ubriachi, commisero atti violenza contro donne e bambini.
A questi ultimi venne anche puntata la rivoltella in faccia per terrorizzarli. Il maresciallo locale, avvisato poco più tardi di quanto stava accadendo, rispose che “sarebbe andato quando gli sarebbe piaciuto”. Andò sul posto il giorno dopo alle 10. Avvenimenti come questo erano quasi all’ordine del giorno, e molto spesso i criminali rimanevano impuniti.
Perché si organizzò lo sciopero legalitario
Davanti a questo tipo di violenze, non era raro che esponenti delle forze dell’ordine non intervenissero per sedare le violenze. Anzi, in alcuni casi parteciparono direttamente alle spedizioni fasciste. Alcuni esempi lodevoli, come la reazione anti-fascista del capitano dei carabinieri Guido Jurgens a Sarzana (21 luglio 1921) o l’ottimo lavoro svolto dal prefetto Cesari Mori a Bologna nel contrastare le violenze, rimasero casi isolati.
L’atteggiamento delle forze dell’ordine è fondamentale per spiegare il successo dello squadrismo fascista. Se da una parte le organizzazioni combattenti delle sinistre, gli “arditi del popolo” (ex combattenti che si opponevano alle violenze squadriste) erano bersagliati da arresti e sequestri di armi, i fascisti erano invece spesso riforniti di mezzi dai magazzini dell’esercito, aperti da funzionari compiacenti. Camion, fucili, elmi. L’armamento degli arditi del popolo, fatto spesso di qualche fucile da caccia e poche munizioni, era ben poca cosa.
Oltretutto gli squadristi, una volta organizzati, potevano colpire anche città e regioni diverse da quelle di provenienza, mentre le loro vittime erano assediati nelle loro sedi, senza potersi difendere. I diversi governi che si succedettero in quel periodo (Bonomi prima e Facta poi) non riuscirono a pacificare la situazione, nonostante i loro tentativi. Il paese rimase in questo insostenibile stato di guerra civile per due anni.
Notizie di conflitti, omicidi e devastazioni si trovano sulle pagine dei quotidiani del tempo giorno dopo giorno. I partiti che vennero colpiti maggiormente, in primis il Partito Socialista ed in seguito il Partito Popolare, non riuscirono ad accordarsi. Fu in questo clima che, nell’agosto del 1922, i socialisti decisero di manifestare in nome del ritorno della legalità: era il cosiddetto “sciopero legalitario”.
Sciopero legalitario: un tragico errore
L’organizzazione di questo sciopero fu il più grave errore commesso dalla dirigenza socialista. Fra la primavera e l’estate del 1922, il fascismo stava perdendo sempre più consensi fra le classi medie, come Mussolini sapeva bene. Le continue violenze contro i “sovversivi” (ossia i socialisti ed i comunisti in genere) apparivano ormai a chiunque completamente sproporzionate rispetto alla minaccia. Le squadre fasciste nel corso dei mesi avevano cominciato a commettere violenze anche contro membri delle forze dell’ordine e dello stato liberale che si opponevano a loro (Mori venne cacciato da Bologna in maggio), ed anche chi li aveva precedentemente appoggiati, come Luigi Albertini, ora cominciava a dubitare della buona fede di Mussolini. Lo “sciopero legalitario” fornì ai fascisti il pretesto di cui avevano bisogno.
I “sovversivi” rialzavano la testa, minacciando nuovamente il paese, e gli squadristi ebbero così la copertura perfetta per agire indisturbati contro i loro nemici. Quarantotto ore dopo l’inizio dello sciopero, iniziò in tutto il paese la rappresaglia fascista: furono migliaia gli atti di violenza commessi dai fascisti, con morti e devastazioni in tutto il paese. Inoltre, molti comuni retti dai socialisti, che fino a quel momento avevano resistito alle violenze fasciste, vennero occupati, causando le dimissioni delle loro amministrazioni comunali, lasciate inermi contro un nemico che le colpiva senza temere alcuna ritorsione.
L’evento più grave fu la caduta di Milano, dove migliaia di squadristi ebbero ragione delle forze dell’ordine occupando Palazzo Marino, senza che il Governo intervenisse in alcuna maniera. Ormai, lo Stato Liberale aveva sancito la sua condanna a morte, che sarebbe stata eseguita con la Marcia su Roma.
L’eroica resistenza di parma durante lo sciopero legalitario
Fra le numerose città cadute in mano fascista dopo lo sciopero legalitario, una grande eccezione fu la città di Parma. Qui gli “arditi del popolo”, condotti dall’onorevole socialista Guido Picelli e dal sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris, si barricarono nei quartieri popolari di Oltretorrente e Santissima Trinità, attendendo l’attacco fascista. Erano circa 300, coadiuvati dalla quasi totalità della popolazione, uomini e donne, vecchi e fanciulli, che aiutarono i combattenti costruendo barriere e partecipando alla lotta.
Dall’altra parte, migliaia di fascisti, condotti da Italo Balbo, assaltarono la città in una battaglia che, agli amanti di storia militare, ricorda in parte le Termopili ed in parte episodi risorgimentali come le “Cinque Giornate di Milano”. In questa battaglia furono decisivi diversi elementi: la posizione difensiva, la partecipazione popolare, la preparazione e l’organizzazione militare degli “arditi del popolo”, oltre alla neutralità assunta dalle forze dell’ordine, che non intervennero in aiuto dei fascisti.
Grazie a tutto questo i fascisti, nonostante la superiorità numerica, non riuscirono a sfondare le difese, ed infine dovettero ritirarsi per salvare la faccia. Questa vittoria fu però un caso isolato: il paese era virtualmente in mano a Mussolini, il quale ottenne il potere pochi mesi dopo, quando il re Vittorio Emanuele III lo invitò a Roma per fondare il nuovo governo. Lo sciopero legalitario fu, nel breve periodo, la pietra tombale dello Stato Liberale. Ma fatti come quelli di Parma ricordarono a tutti che il Fascismo non era invincibile. Molti “arditi del popolo”, dopo il 1922, si sbandarono. Ma molti altri combatterono ancora, ogni volta che poterono. Prima in Spagna, durante la guerra civile, e dopo ancora durante l’occupazione, entrando nella Resistenza partigiana.
Fabio Streparola per Questione Civile
Fonti:
- Eros Frascangeli, “Arditi del popolo”;
- Marco Rossi, “Arditi, non gendarmi!”;
- Angelo Tasca, “Nascita e avvento del fascismo”;
- Renzo De Felice, “Mussolini il fascista, la conquista del potere”;
- Sabatucci e Vidotto, “Il mondo contemporaneo”;
- Mimmo Franzinelli, “Squadristi”;
- Archivio di Stato di Cremona, Regia Procura Cremona, busta 18.