Opere d’arte: ricovero e salvataggio tra il 1939 e il 1945

Opere

L’importanza dell’attività di Pasquale Rotondi per le opere d’arte durante il secondo conflitto mondiale

Prima di concentrarci sull’attività di Pasquale Rotondi per le Marche, e non solo, è bene citare l’attività di salvataggio e tutela delle opere d’arte che i soprintendenti e i direttori dei vari musei portano a termine durante il secondo conflitto mondiale.

Le loro gesta sono raccolte all’interno del volume La protezione del patrimonio artistico nazionale dalle offese della guerra aerea. Qui viene, ad esempio, riportata la vicenda dei teleri di Vittore Carpaccio smontati dalla loro reale collocazione presso la sala di Sant’Orsola (Gallerie dell’Accademia), o ancora le operazioni di salvataggio effettuate presso il Museo Nazionale dell’Umbria o Palazzo Bianco a Genova[1].

Opere distrutte: come si intervenne?

In molti casi i monumenti e le opere, ormai ridotti in frammenti, vennero restaurati, ma le azioni di intervento furono diversificate ed eterogenee. Per esempio, l’Abbazia di Montecassino venne ripristinata “com’era dov’era”, mentre per il complesso monumentale di Santa Chiara a Napoli avvenne il recupero della facies medievale e si decise di eliminare le fasi di epoche successive[2].

Tuttavia, negli stessi anni personalità quali Cesare Brandi cominciò a parlare di restauro come disciplina a metà fra la storia dell’arte e la scienza; si iniziava a pensare ad un restauro che anzitutto rispettasse il monumento e che, dunque, avesse come punto di partenza il frammento stesso. Il restauro ottocentesco à l’identique era stato definitivamente sorpassato[3].

Il ruolo delle Marche durante il secondo conflitto mondiale

Durante il secondo conflitto mondiale le Marche svolsero un ruolo fondamentale per il ricovero delle opere d’arte. I punti individuati per nascondere il patrimonio culturale furono la rocca di Sassocorvaro e il Palazzo dei principi di Carapegna, nell’omonima città. Qui trovarono ospitalità opere cardine della nostra cultura figurativa; quali la Flagellazione di Piero della Francesca, la Tempesta di Giorgione, lo Sposalizio della Vergine di Raffaello, il Miracolo dello schiavo di Jacopo Robusti, per citare solo alcuni fra i più famosi esempi che qui vennero trasportati in gran segreto, al riparo da possibili ed eventuali bombardamenti.

Già nel novembre del 1939 il Ministero aveva promulgato una circolare, in vista della guerra, diretta a tutti i soprintendenti alle gallerie, monumenti e antichità, riguardante la difesa del patrimonio artistico nazionale da attuare mediante il raccoglimento e l’accentramento delle opere mobili, di maggior rilievo e in maggior pericolo, in località idonee per quanto riguardava la loro sicurezza[4].

Ai comandi provinciali di difesa antiaerea dipendenti dal Ministero della guerra, e alle Ferrovie dello Stato, si affidava il compito di provvedere al trasporto delle opere d’arte; la cooperazione degli organi periferici, le Soprintendenze, con l’organo centrale, il Ministero riuscirono a realizzare il tutto.

L’attività di Pasquale Rotondi per le opere d’arte

Tramutata l’idea, come si legge nella sua relazione, di fare di Urbino una «città libera»[5] a difesa del patrimonio artistico nazionale, e dovendo ogni soprintendenza curarsi della propria circoscrizione, il soprintendente alle gallerie delle Marche, Pasquale Rotondi, in seguito ad accordi presi con i comitati di protezione antiaerea e con il Ministero, decise di lasciare in loco le opere non trasportabili. Solo quelle più esposte al pericolo di danni e razzie furono rimosse e trasportate con autocarri capienti e forniti di particolari attrezzature per gli spostamenti dai capoluoghi di provincia – Ascoli Piceno, Pesaro, Macerata e Ancona – nei luoghi destinati al ricovero.

Essendo Urbino un obiettivo militare per via dei depositi di munizioni dell’aeronautica, occorreva predisporre un ricovero lontano da centri di interesse bellico, sicuro da attacchi aerei, privo di umidità, fornito di acqua (a scopo antincendio) e vicino alla sede della Soprintendenza alle gallerie. Tra le varie rocche del Montefeltro, Gradara, San Leo, Sassoferrato e Sassocorvaro, quest’ultima era l’unica ad essere fornita di tali requisiti. Inoltre le sue possenti e massicce architetture, progettate e realizzate nel Quattrocento da Francesco di Giorgio, resistettero in maniera ineccepibile ai colpi delle bombe nemiche[6].

Opere d’arte salvate nelle Marche

Un presidio di guardia militare e un corpo diurno e notturno, formato da due custodi della Soprintendenza di Urbino e due della Soprintendenza del Veneto, garantivano la salvaguardia di ben trecentosettantaquattro capolavori[7] provenienti da differenti località non solo dalle Marche, ma anche dal Veneto, in seguito agli accordi presi dai due organi ministeriali regionali[8]. Venivano così trasportate e raccolte nelle due sale sotterranee e nel corridoio al primo piano della rocca le opere più significative dell’arte italiana[9].

Le altre opere del Palazzo, che per ragioni logistiche non poterono essere trasportate fuori, vennero consolidate, laddove si trattava di architetture[10], oppure nascoste all’interno di spazi “di risulta”[11].

Svuotato dall’apparato museale, ora il Palazzo appariva nell’essenzialità dei meravigliosi partiti architettonici agli occhi di Rotondi; proprio da quest’occasione di studio che fiorirà la successiva pubblicazione Il Palazzo Ducale di Urbino (1950). In seguito a quelle rimozioni, il piano nobile del Palazzo, spoglio di ogni “accessorio”, assunse un aspetto suggestivo e stimolante per lo storico dell’arte: «la fortuna di poterne godere l’armonia aumentò il mio desiderio di indagare la genesi, portandomi ad intensificare l’esplorazione delle varie parti del monumento, allo scopo di capirne qualche valido elemento di giudizio»[12].

Il divieto d’ingresso posto dai tedeschi al Palazzo, ne precluse l’accesso agli stessi urbinati, eccezion fatta per gli impiegati dei numerosi uffici ivi stanziati[13].

E dopo l’armistizio?

Dopo l’armistizio dell’otto settembre, l’occupazione tedesca del Palazzo dei principi di Carapegna che dal 1942 occultava le opere provenienti dalle più importanti gallerie e chiese italiane (Museo sforzesco, Accademia di Carrara, Musei Poldi-Pezzoli, San Luigi dei Francesi a Roma, San Marco a Venezia e via dicendo). Questa situazione di stallo fece vivere «ore d’ansia», come ammise egli stesso, al direttore delle gallerie marchigiane[14]. Mentre a Carapegna i custodi riuscivano ad evitare le perquisizioni delle casse facendole passare per contenitori di arredi e documenti, da Sassocorvaro il soprintendente, accorso a salvare le opere d’arte, fece di tutto per salvare il possibile da una probabile occupazione.

Come si legge nella sua relazione, Rotondi riuscì a trasportare la Tempesta di Giorgione e a ricoverarla nei pressi di Urbino, sfidando il controllo dei tedeschi che presidiavano le strade, in tre ambienti del Palazzo, attigui alla cripta del duomo, dove affluirono, in seguito, il resto delle opere ubicate nella rocca. Ad esse si unirono il gruppo di opere ricoverato nel Palazzo di Carapegna, e sottratto al comando tedesco dal Pasquale Rotondi. Quest’ultimo valendosi di una lettera del soprintendente di Venezia, riuscì a caricare le casse contenenti i capolavori delle gallerie dello Stato, senza che i tedeschi sospettassero alcunché, essendo state precedentemente eliminate le etichette[15].

Opere d’arte trasportate verso il Vaticano

Intanto a Roma veniva deciso il trasporto e il deposito delle opere d’arte appartenenti allo stato nel territorio neutrale della Città del Vaticano. Ad assumere volontariamente il rischioso incarico fu Lavagnino[16] che, d’accordo con De Rinaldis e il direttore delle Antichità e Belle Arti Lazzari, organizzò il trasporto delle opere dalle Marche a Palazzo Venezia e da qui in Vaticano.

A Sassocorvaro frattanto continuava la vigilanza del personale di custodia confortato dalla fiducia del soprintendente Rotondi: nel marzo del 1944 arrivarono altre casse con materiale della biblioteca Oliveriana e del Museo archeologico di Pesaro, mentre ad Urbino il coro ligneo della chiesa di Sant’Agostino di Pesaro, la raccolta dei disegni affluivano nei sotterranei del Palazzo Ducale. Poderosi muri di protezione venivano ancora innalzati in Vaticano, e nuovamente simulati, mentre si raddoppiavano le misure contro l’umidità[17].

E dopo la guerra?

Finita la guerra, e con il ritiro delle truppe tedesche, la rocca di Sassocorvaro rimase isolata e nonstante l’ordine di sfollamento, i custodi rimasero al loro posto. Similmente i loro colleghi e funzionari di Palazzo Ducale che nell’agosto del ’44 videro le prime pattuglie inglesi bivaccare nelle stanze della galleria fortunatamente svuotata. L’amara constatazione dei danni apportati dalle truppe al monumento strettamente legato alla storia e alla vita della città, era tuttavia compensata dalla soddisfazione di aver contribuito alla salvaguardia del patrimonio artistico, non solo regionale, ma nazionale.

Greta Cingolani per Questione Civile

Bibliografia

Per la museografia del secondo dopoguerra:

  • Alberto Boralevi, Museologia, Urbino, ProManuscripto, 1983;
  • F. Bucci, A. Rossari (a cura di), I musei e gli allestimenti di Franco Albini, Milano, Mondadori Electa, 2005;
  • Raffaele Casciaro (a cura di), Palazzi storici e museografia moderna, Salerno, Congedo Editore, 2016;
  • Marisa Dalai Emiliani, Per una critica della museografia del Novecento in Italia. Il “saper mostrare” di Carlo Scarpa, Venezia, Marsilio Editori, 2008;
  • Marisa Dalai Emiliani, Prima e dopo il 1912: la storia dell’arte degli italiani, in L’Italia e l’arte straniera. La storia dell’arte e le sue frontiere a cento anni dal 10° Congresso internazionale di storia dell’arte in Roma (1912), un bilancio storiografico e una riflessione del presente, Atti del convegno nazionale dei Lincei, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 23-24 novembre 2012, Roma, Bardi Edizioni;
  • G. De Angelis D’Ossat, Musei e Gallerie di nuova istituzione, ricostruiti e riordinati, in «Musei e Gallerie d’Italia», Roma, 1953;

Per una storia degli allestimenti:

  • Dante Bernini, Un esempio di sperimentazione museografica nel palazzo ducale di Urbino, in Museologia, n.11, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1984;
  • Paolo Dal Poggetto, La Galleria Nazionale delle Marche e le altre Collezioni nel Palazzo Ducale di Urbino, Roma, Novamusa, 2003;
  • Giorgio Raineri, Progetto per il nuovo ordinamento della Pinacoteca di Urbino, in Lotus, I, 1979;
  • Paolo Dal Poggetto, Guida alla Galleria Nazionale delle Marche nel Palazzo Ducale di Urbino, Roma, Gebart, 2006;
  • Paolo Dal Poggetto (a cura di), Le due donazioni Volponi alla Galleria Nazionale delle Marche a Urbino, Urbino, Edizioni QuattroVenti, 2003;
  • Pasquale Rotondi, Appunti e ipotesi sulle vicende costruttive del Palazzo Ducale di Urbino, in “Studi urbinati”, anno XIV, n. 1-2, Urbino, S.T.E.U., 1942;
  • Pasquale Rotondi, Il Palazzo Ducale di Urbino, voll. I,II, Urbino, Istituto statale d’Arte per il libro, 1951;
  • Luigi Serra, Il Palazzo Ducale e la Galleria Nazionale delle Marche, Libreria dello Stato, Roma, 1930;
  • Luigi Serra, Le varie fasi costruttive del Palazzo Ducale di Urbino, in Bollettino d’Arte, s. II, a. X, Roma, 1931.

[1]DIREZIONE GENERALE ANTICHITA’ E BELLE ARTI (da ora in poi DG AA BB AA), La protezione del patrimonio artistico nazionale dalle offese della guerra aerea (1915-1917), in Bollettino d’arte del Ministero della Pubblica Istruzione, Anno 11, fasc. 8/12, 1917, pp.8-25. Vedi anche Cinquanta monumenti italiani danneggiati dalla guerra, 1947; La ricostruzione del patrimonio artistico italiano, 1950; La ricostruzione delle biblioteche italiane dopo la guerra 1940-45, 1953; Repertorio delle opere d’arte trafugate in Italia, 1964.

[2] G. NUTI, Nota sull’esposizione del restauro a Montecassino, in Marmo, 3, n.123-124, 1964, pp.2-6.

[3] C. BRANDI, Teoria del restauro, Einaudi, 1968.

[4] Per le operazioni di salvataggio si veda B. CESTELLI GUIDI, S. TURCO, Lo scavo ad Isola Gorgo, Laguna di Grado, estate 1917, documentazione visiva dell’archivio fotografico della ex Direzione Generale Antichità e Belle Arti, Ministero della Pubblica Istruzione, in Quaderni Friulani di Archeologia, XXVI, I, 2016.

[5]P. ROTONDI, Capolavori d’arte sottratti ai pericoli della guerra ed alla rapina tedesca, in Urbinum organo della R. Accademia Raffaello, XIX, luglio-agosto, 1945.

[6] D. BERNINI, Storia di un Museo, op. cit. p.33.

Seconda parte

[7] «Ben 347 furono i grandi capolavori che giunsero in questo primo tempo, in meno d’un mese, nel ricovero. Se non sembra utile – perché tedioso – elencarli dettagliatamente, pare però opportuno nominare a caso qualcuno, affinché possa emergere la grande importanza dell’insieme: la grande pala d’altare di Giovanni Bellini del Museo di Pesaro, i Tiziano di Ancona e quelli di Urbino, il Rubens di Fermo, i Piero ed il Paolo Uccello e il Signorelli ed il Melozzo ed i Giusto di Urbino, i Lotto di Jesi ed i Perugino di Fano ed i Crivelli di Ascoli e gli Allegretto di Macerata di Urbino e di Fabriano, e il fiore delle ceramiche di Pesaro, ed i piviali rarissimi di Fermo e di Ascoli, e gli arazzi di Ancona e Fabriano…

Poco più tardi ecco aggiungersi a questo primo gruppo di documenti e d’incunaboli della Biblioteca Oliveriana di Pesaro. Più tardi ancora, e precisamente il 16 ottobre del 1940, giungono a Sassocorvaro i grandi capolavori delle Gallerie, della Ca’ d’Oro e del Museo Orientale di Venezia: più di cento opere d’arte rinchiuse in settanta casse: prima tra esse per importanza la Tempesta di Giorgione» da P. ROTONDI, Capolavori d’arte, op. cit. pp.13-14.

[8] P. ROTONDI, Capolavori d’arte, op. cit. p.25.

Terza parte

[9] «Contemporaneamente nel pianterreno dello stesso palazzo del Montefeltro furono trasportati tutti gli altri settori della galleria nazionale, ivi comprese le porte intarsiate degli appartamenti degli appartamenti piano nobile e le tarsie parietali dello studiolo di Federico. Lo smontaggio di quelle tarsie mi portò alla scoperta di un leggio snodabile e di un sedile ribaltabile, ingegnosamente camuffati nei pannelli dell’angolo sud-orientale dello studiolo, vera rarità nel campo del mobilio del secolo XV» Cfr Storia di un Museo, p.66.

[10] Si trattò di un radicale consolidamento mediante elevazione di muri antischegge e anticrollo, e misure di sicurezza attuate per l’impianto idrico e antincendio (fino ad allora mancante) collegato a numerosi sacchi di sabbia utilizzati come barricate per difendere le architetture di porte e finestre. Si provvide anche al rafforzamento dell’impianto dei parafulmini e allo svuotamento del materiale combustibile dalle soffitte, nonché all’istituzione di una squadra di pronto intervento di vigili del fuoco, oltre ai normali turni dei custodi. Il documento relativo alle misure di prevenzione si trova in Archivio Centrale di Stato a Roma (ACS); all’interno del faldone “Urbino” come foglio sciolto all’interno della cartella “guerra”.

Quarta parte

[11] Ad esempio, le tele di Giovanni Santi, le ceramiche di Castelli, Pesaro e Urbino, l’alcova, gli arazzi cinquecenteschi, i Crocifissi lignei del Trecento e i busti quattrocenteschi vennero nascosti all’interno di uno dei torricini e in alcune stanze sotterranee.

[12] D. BERNINI, Storia di un Museo, op. cit. p.63.

[13] Come la Scuola del Libro, gli uffici del Monte di pietà, l’archivio notarile e l’Istituto d’Arte.

[14] P. ROTONDI, Redazione dell’Accademico Prof. Pasquale Rotondi all’Accademia Raffaello sul salvataggio delle opere d’arte d’Italia affidate alla sua custodia, in «Urbinum», anno XIX, n.7-12, luglio-novembre 1945.

[15] D. BERNINI, Storia di un Museo, op. cit. p.66.

[16] E. LAVAGNINO, Diario di un salvataggio artistico, in Nuova Antologia, anno 109, vol. 521, fasc. 2084, agosto 1974, pp.501-47.

[17] D. BERNINI, Storia di un Museo, op. cit. p.75.

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