Giuseppe Ungaretti e Louis-Ferdinand Céline alla prova dello shock della Prima Guerra Mondiale
Ungaretti e Céline: amare o violentare la parola?
Ungaretti e Céline: un accostamento che suona assurdo solo a pronunziarlo. Da una parte il cultore della parola, della sua magia e della «meraviglia» che essa può suscitare; dall’altra parte colui che forse più di chiunque altro violentò la parola, la frase, la lingua stessa. Eppure Ungaretti e Céline furono spettatori di una Storia tremendamente simile, e agirono come uomini e come letterati in contesti quasi sovrapponibili. In cosa consista l’abisso (termine volutamente ungarettiano) che li separa, perché esso sussista e donde origini sarà compito di quest’articolo, se non chiarire, illuminare (ancora con le grammatiche del Nostro).
Illuminare a partire, com’è ovvio, dagli scritti più importanti dei due: principalmente il corpus poetico del primo e i romanzi e pamphlet del secondo, con particolare riferimento alla semi-autobiografia Viaggio al termine della notte.
Ungaretti e Céline: un’unica Storia, due storie diverse
Ma, per iniziare, preme sottolineare la vicinanza dei due scrittori: 1888-1970 è l’arco cronologico entro cui si situa la vita di Giuseppe Ungaretti; 1894-1961 quello fra la nascita e la morte di Louis-Ferdinand Céline. Ambedue combatterono sullo stesso macro-fronte (quello dell’Intesa: per l’Italia il primo; per la Francia il secondo) la Prima Guerra Mondiale. Céline venne perfino decorato con una medaglia al valore, di cui invero non si dimostrò mai orgoglioso: e infatti può considerarsi, pur da una prospettiva radicalmente differente a quella a cui potremmo pensare, un pacifista.
E del resto l’esperienza bellica lo segnò a tal punto che egli non poté che perdere ogni idea «romantica» sulla guerra. Ma «pacifismo» céliniano fu ben particolare: se l’autore pur rigettava l’idea ingenua che con le armi e la morte si potesse risolvere positivamente un conflitto umano, d’altra parte, proprio poiché di conflitto umano si trattava, egli non vi scorgeva altri possibili finali: l’uomo non è per lui più che una bestia ed ha nel proprio DNA (o, con parole dell’autore, nel proprio cuore) la guerra e la violenza.
L’uomo per Céline
L’uomo suscita in Céline – e qui parliamo tanto del signor Céline, quanto (anzi, soprattutto) dell’«io» che emerge dai suoi scritto – schifo, disgusto, ributto, e così ogni umana istituzione, tanto più se pretende di non suscitarlo costruendosi una scintillante facciata di rispettabilità: paradigmatico esempio di ciò ne sia l’America che intravediamo nel Viaggio al termine della notte. L’America negli anni ‘10 e ‘20 coincideva, nella vulgata, con il «sogno» di realizzazione dell’individuo. Ma Céline (o, meglio: il Ferdinand protagonista del Voyage) cosa vi trova? Anzitutto: merda.
Non certo metaforicamente: la scena, ributtante e maestosa, che condensa, allegorizzandola, l’american way of life è la seguente: un branco di uomini che cagano in una toilette sotterranea ognuno più forte e più molestamente che può; ognuno andando fiero della forma della propria materia fecale; ognuno urlando che l’«ha fatta più grossa». Il Voyage uscì nel ‘38: lustri prima che Kerouac e Bukowski (estimatori spassionati di Céline, tanto che il secondo lo definì «il più grande scrittore degli ultimi 2000 anni») ripescassero, modificandola, quest’immagine allegorica della società dei consumi e dell’individualismo sfrenato in On the road (il famoso «trasporto di letame») e in numerosi celebri racconti; decenni prima del Salò pasoliniano e della sua indimenticabile scena di coprofagia.
Un bombardamento di punteggiatura
Ma torniamo alla guerra. Per Céline la guerra conduce solo ed esclusivamente alla morte. Anzi: alla morte e alla pazzia, che del resto sono intrinsecamente legate fra di loro; infatti la seconda costituisce l’esito di un faccia a faccia con la prima a cui l’uomo non può reggere conservando la propria lucidità. Lucidità che è del tutto assente dalla prosa frenetica e allucinata del Viaggio al termine della notte (a questo proposito si rinvia al dialogo tra Ferdinand e Lola sulla morte in guerra: cfr. pag. 76 e ss. dell’edizione Corbaccio 2020).
In questa prosa salta il consueto sistema di punteggiatura. E qui scorgiamo una grande analogia e un’ancor più enorme differenza con Ungaretti: conosciamo bene l’avversione di quest’ultimo per la punteggiatura «da manuale». E tuttavia Ungaretti esprime quest’avversione isolando le parole e decontaminandole da virgole, due punti e similari, per ritornar loro la potenza e la poeticità di cui sono intrinsecamente portatrici; e invece Céline le bombarda con raffiche di punti esclamativi, puntini di sospensione, trattini; oppure le ammucchia le une sulle altre fino a produrre sequenze deliranti.
Ungaretti poeta monolinguistico
Sono (anche) i punti, le virgole e i trattini a dirci molto sulla reazione di Céline e Ungaretti alla guerra. La limpidezza, la possibilità per la parola, isolata e pura, di comunicare, è una cifra della poetica del secondo, che con una qual certa immodestia afferma d’inserirsi nella tradizione «alta» della lirica italiana (quella «monolinguistica», per dirla col Contini, inaugurata dal Petrarca e proseguita dal Bembo, dal Tasso e dal Leopardi). E dunque egli può e vuole essere il Petrarca o il Leopardi della WW1, dei corpi dilaniati e delle città rase al suolo.
Un Petrarca o un Leopardi, si badi, nient’affatto ingenuamente imitatore: anzi, i «volgerommi», i «poscia» e gli «io sentìa», il bagaglio purista e classicista cui ancora autori come il Carducci erano affezionati insomma, viene defenestrato da Ungaretti. Ma viene defenestrato proprio in ossequio a un nuovo classicismo monolinguistico: un classicismo che Gramsci, con intento polemico e paradossale, accosta niente meno che al barocco. Del resto, fa notare il Comunista, nella loro totale opposizione – il verso fatto di una parola, la frase «ridotta all’osso» contro la sensualità della sovrabbondanza – Ungaretti e Marino hanno una concezione di poesia spaventosamente simile: la meraviglia («del poeta il fin è la meraviglia» echeggia infatti nella poesia come «limpida meraviglia di un delirante fermento»).
Ungaretti e Céline: amore vs merda
Meraviglia, quella ungarettiana, laddove proprio non ce la si aspetterebbe. Prendiamo la famosa Veglia: alle immagini crude e sanguinolente di un corpo morto, segue la celebre chiusa «ho scritto lettere piene d’amore». Perché mai? Perché Ungaretti riuscì a evitare, complici la sua fede – in Dio, tante volte da lui interpellato, e nell’uomo –, il suo misticismo, il suo patriottismo, il suo «interventismo del cuore» (e non dimentichiamoci che egli fu un fascista convinto), lo shock da cui invece fu completamente travolto tanto il Céline in carne e ossa quanto i personaggi dei suoi romanzi, in cui convivono in lotta fra loro pessimismo, disfattismo, spleen, nichilismo, anarchia e al contempo spinte autoritarie portate all’estremo (anche Céline fu fascista: collaborazionista e apertamente antisemita).
Insomma, laddove Ungaretti riusciva, da una situazione disastrosa (il famoso «abisso»), a cavar fuori «lettere piene d’amore», Céline, procedeva con il coraggio eroico e tragico del disfattista. Privo, per la scelta inevitabile che la sua coscienza gl’imponeva dopo tanto orrore, dei dispositivi di edulcorazione della realtà che poggiano sulla fede (negli uomini, in Dio e nella letteratura, e non a caso egli non fu propriamente un fan di Petrarca, quanto piuttosto di Zola), non riuscì a far entrare l’amore nelle sue lettere, che rimangono solennemente e drammaticamente piene di merda. Di quella «merda» che, per il misantropo e pessimista Céline, rappresenta l’esistenza e l’umana condizione.
Andrea Monti per Questione Civile
Bibliografia
(le edizioni nella gran parte dei casi sono alcune fra le molte disponibili):
A) Romanzi latamente beat ispirati a Céline, in cui esso compare (esplicitamente menzionato in maniere differenti):
Ch. Bukowski, Taccuino di un vecchio sporcaccione, Parma, Guanda, 1999
Ch. Bukowski, Pulp, Milano, Feltrinelli, 2013
Ch. Bukowski, Storie di ordinaria follia. Erezioni Eiaculazioni Esibizioni, Milano, Feltrinelli, 2017
J. Kerouac, Sulla strada, Milano, Oscar Mondadori, 2016
B) Studi su Céline e sua influenza:
M. Alberghini, Louis-Ferdinand Céline gatto randagio, Milano, Mursia, 2009
B. Miles, Il Beat Hotel, Parma, Guanda, 2007
J. P. Richard, Nausea di Céline. La condizione umana nell’immaginario e nelle opere di Louis-Ferdinand Céline, Passaggio al bosco, 2019
C) Principali scritti di Céline da cui sono desunte le informazioni riportate nell’articolo:
L. Ferdinand Céline, Il dottor Semmelweis, Milano, Adelphi, 1975
L. Ferdinand Céline, Morte a credito, Milano, Garzanti, 2007
L. Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte, Milano, Corbaccio, 2020
Céline sul suo debito con Zola: http://lf-celine.blogspot.com/2016/06/louis-ferdinand-celine-homage-to-zola.html
D) Studi su Ungaretti:
G. Contini, Letteratura dell’Italia unita, Firenze, Sansoni, 1968
A. Gramsci, Quaderni del carcere (per l’esattezza, su Ungaretti cfr. Quaderno 17, cap. IV, par. 44), Torino, Einaudi, 2014
C. Ossola, Ungaretti, poeta, Venezia, Marsilio, 2014
E) Opere di Ungaretti:
G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Saggi e interventi, Milano, I Meridiani Arnoldo Mondadori, 2001 G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Milano, I Meridiani Arnoldo Mon