Rivoluzione industriale e noi: la terribile modernità

La rivoluzione industriale come esito di un cambio di paradigma

La rivoluzione industriale, che prese avvio nell’Inghilterra di metà ‘700, è un processo complesso che ha le sue radici lontane nel generale (ma non totale, né onnicomprensivo) cambio di mentalità che andò affermandosi, a partire dall’età moderna, con la colonizzazione del «Nuovo Mondo», soprattutto oltreoceano.

In tale contesto, infatti, non era stata replicata la società di stampo aristocratico-feudale europeo, la quale del possesso della terra faceva uno strumento di governo politico e morale, più che un mezzo economico. Era stata, al contrario, instaurato un abbozzo di economia di mercato rispondente ai dettami di quest’ultimo in un’ottica che potrebbe definirsi proto-capitalistica.

In tale ottica, il «signore» in quanto conte, marchese etc… – e quindi intermediario più o meno diretto dell’Altissimo, perciò portatore e garante d’un ordine anche morale – veniva rimpiazzato dal capitalista che si serviva vieppiù di manodopera schiavistica «importata» (la forza lavoro era effettivamente considerata, se non merce, bestiame) dall’Africa nera. Si stima che la tratta di esseri umani dall’Africa all’America abbia coinvolto nel suo complesso oltre 12 milioni di persone.

Alcune innovazioni tecniche della rivoluzione industriale

Tale cambio di paradigma, foriero dell’elevatissimo grado di competitività dei prodotti importati dalle colonie, indusse le Madrepatrie (e specialmente quella che era ormai la Madrepatria per eccellenza, l’Inghilterra, egemone a livello mondiale dopo la vittoriosa Guerra dei Sette Anni che andò dal 1756 al 1763) a fare proprie le dinamiche che avevano luogo nelle colonie.

È proprio per competere con l’industria tessile del cotone indiana, che in Gran Britannia si svilupperanno processi che permeassero l’intera filiera cotoniera, secondo un vertiginoso susseguirsi di «botta e risposta» (così definito da David S. Landes nel suo studio di rara acutezza sin dal nome, Prometeo liberato) che garantiva il continuo, apparentemente inarrestabile, progresso industriale. Nello specifico, un’invenzione assai importante fu quella di Kay: il telaio a navetta volante, che garantì una velocizzazione dei processi produttivi.

Si determinò così una richiesta di filo tale da impegnare numerosi menti brillanti dell’epoca nella ricerca di una soluzione che ottimizzasse i processi di filatura. In questo campo si ebbe un progresso costante: nel 1764 Hargreaves inventò la spinning Jenny, macchinario in cui sei fusi venivano azionati contemporaneamente da un solo filatore; appena quattro anni dopo, Arkwright inventò una macchina filatrice in grado di servirsi dell’energia idrica; una summa di tali due innovazioni si concretizzò nell’iconica mule Jenny, messa a punto nel 1774 da Richard Crompton: essa sfruttava l’energia idrica per azionare contemporaneamente un numero assai elevato di fusi (oltre 300 negli esemplari più progrediti).

Proprio per il summenzionato processo di «botta e risposta», tali superbe innovazioni nel comparto della filatura diedero impulso a quello della tessitura a svilupparsi ulteriormente: ecco che nel 1784 Cartwright mise a punto il primo telaio che sfruttava l’energia idrica.

Rivoluzione industriale e famiglia

La rivoluzione industriale fu una vera rivoluzione nel modo di produzione: l’economia dei cottage, legata ancora in molti casi all’industria domestica, che ancora sopravviveva nella prima metà del secolo, fu messa in crisi. Venne a formarsi l’entità «fabbrica», in quanto solo chi disponeva di ingenti capitali poteva sfruttare al meglio le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie per produrre beni: i «pesci grandi» fagocitarono quelli piccoli, e s’ingenerarono dinamiche perverse che ancora non sono scomparse.

Anzitutto si smembrò la famiglia, tradizionalmente fondamento della comunità (si veda Aristotele: il fondamento della polis è l’oikos). Donne e bambini venivano impiegati di preferenza nelle nuove realtà industriali, che richiedevano al lavoratore minor sforzo fisico ma maggior manualità e soprattutto minor disposizione, fisica e psicologica, alla ribellione in una situazione di bieco sfruttamento e sottopagamento.

Gli uomini vennero in gran parte spodestati del loro ruolo di capofamiglia tradizionale, e finirono col trovarsi impiegati a stagioni alterne nelle costruzioni delle nuove infrastrutture e nella rinnovata agricoltura che, dalle enclosures seicentesche in avanti, aveva assunto, con debite ma non sostanziali modificazioni, la forma capitalistica che proveniva dall’esempio coloniale. Da notare come tali due attività – agricoltura e costruzioni – non fossero mai temporalmente coincidenti, così da favorire uno sviluppo con costi i meno onerosi possibile (i quali sarebbero stati impraticabili in una situazione di sovrabbondanza di offerta di lavoro).

Rivoluzione industriale e maschilismo: l’ipotesi di Zamagni

L’uomo (s’intende qui il «maschio»), dunque, iniziò a separarsi dal nucleo familiare, e in questa sua ferita leggiamo, con lo storico dell’economia d’ispirazione social democratica, Zamagni, uno dei nuclei dei maschilismo tossico, certamente incoraggiato da una morale – poiché più staccata da quella cristiana di cui era garante l’antica aristocrazia – decaduta.

La celebre «strada del gin» ritrae perfettamente tale contesto, a cui aggiunge quello di una degenerazione del ruolo femminile: la donna trascura, per ovvi motivi, la cura della prole, e impiega i pochi momenti liberi nel vizio. «Vizio» è una parola che ricorre molto spesso nella trattatistica e pure nella letteratura di quest’epoca (in cui si assiste a un fiorire di eroine o anti-eroine prostitute). Ma molto spesso, come nel caso delle «donne di piacere», il «vizio» è da considerare in un contesto ben più drammatico di quanto il termine non suggerisca, ché la prostituzione, per chi la praticava, era assai più un modo per mettere insieme il pranzo con la cena che non uno sfogo di passioni e pulsioni.

Ma la condizione degli uomini era non meno disperata: essi si trovarono a lavorare senza alcuna garanzia sindacale, con mezzi sempre più pericolosi, stritolati – molto spesso letteralmente – nel circuito del carbon fossile, alla base dell’industria della ghisa (e quindi delle costruzioni) come di quella dei nuovi processi industriali, come di quella del nuovo sistema di trasporti (battello e treno), come di quella estrattiva dello stesso carbon fossile: proprio dall’esigenza di pompare l’acqua delle falde in superficie nacque una prima macchina a vapore progettata da Newcomen (1705), in seguito perfezionata sia da Watt sia da Stevenson al punto da comprendere un asse rotante in grado di azionare molteplici altri ingranaggi e/o di produrre movimento.

Bene totale o bene comune?

È questo, a sentire Zamagni, il risultato finale di un completo cambio di paradigma, di mentalità, una transizione da un impianto strutturale della società di tipo platonico-artistotelico-cristiano, per cui – in qualche modo – ciò a cui bisogna tendere è il Bene Comune, a uno di tipo utilitaristico (influenzato, certo da certi sviluppi della fisiocrazia e di alcuni indirizzi del protestantesimo – e si veda in merito Marx), proiettato verso il Bene Totale: concetto, quest’ultimo, che non prevede nemmeno il tentativo di ricerca di giustizia sociale, né che può proporre esempi di virtù se non nella nuova declinazione assunta da questo termine («ciò che è più utile», Bentham). Così il vizio, di cui prima si parlava, è considerato non più un perturbamento di un processo che tende all’ordine, ma un fattore umano su cui speculare (si veda La favola delle api di Bernard de Mondeville) per produrre ricchezza.

Disincanto del mondo

E in tale contesto di «disincanto del mondo», con un Dio non ancora nietzschianamente «morto», ma alleato del capitalista – il quale si sente il predestinato destinatario della Grazia di calvinista memoria (d’obbligo è il rimando a Max Weber) –, la società prospera e dà di sé un’immagine meno terribile di quanto non sia in realtà. Il malcontento, reale ma non ancora tematizzato e coerentemente incanalato, si mostra come luddismo (dalla leggendaria figura dell’ agitatore Neil Ludd, che invitava alla distruzione dei mezzi di produzione), rivolta inattuale contro un progresso di cui non s’intuiscono i contorni foschi ma di cui già i lavoratori riescono a scorgere un nemico che li renderà disoccupati e affamati.

Ma ci vorrà l’intero ‘800 per uno sviluppo «scientifico» delle idee socialiste, che a loro volta contamineranno, ingentilendole, quelle liberali e improntate all’umanitarismo cristiano: si potrà parlare allora di una vera «coscienza di classe» proletaria e dei primi tentativi di socialismo reale, partiti con grandi speranze e miseramente falliti nel rivelarsi terribili e sanguinose dittature.

Andrea Monti per Questione Civile

Per approfondire:

  • A. Bellocchio, Ned Ludd. E che Dio protegga il mestiere!, Moretti&Vitali, Bergamo, 2005
  • D. Landes, Prometeo liberato, Einaudi, Torino, 2000
  • B. De Mondeville, La favola delle api ovvero, vizi privati pubblici benefici, Laterza, Roma-Bari, 2008
  • M. Weber, Le origini del capitalismo moderno, Donzelli, Roma, 2009
  • M. Weber, Etica protestante e sviluppo del capitalismo, BUR, Milano, 1991
  • S. Zamagni, P. Venturi, Da spazi a luoghi, AICCON, Forlì, 2017
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