Il contesto carcerario e le sindromi psicopatologiche

Il contesto carcerario: l’impatto psicologico di una sospensione del sé

Nel momento in cui l’individuo mette piede nel contesto carcerario deve fare i conti con uno stravolgimento del proprio vissuto sociale ed emotivo. L’entrata in carcere, infatti, pone il detenuto dinanzi ad una realtà basata sulla privazione delle proprie autonomie, sul monitoraggio costante della propria quotidianità, sull’allontanamento dai propri affetti. Il vissuto in carcere, quindi, è totalmente spersonalizzante ed il contesto carcerario è quel luogo in cui le speranze per il futuro vengono meno e anche la gestione del proprio momento presente non è più prerogativa dell’individuo ma dell’istituzione.

“Le nostre prigioni”
-N. 1
Questo è il primo numero della Rubrica di Rivista dal titolo “Le nostre prigioni”.

Suicidio nel contesto carcerario

All’interno dei contesti detentivi è molto frequente che i detenuti facciano ricorso al suicidio soprattutto nelle fasi iniziali della carcerazione o in attesa di giudizio. All’interno di questa realtà anche il suicidio diventa un evento critico frequente che non può essere spiegato solo come conseguenza di fattori psicopatologici ma anche come effetto delle caratteristiche intrinseche dei luoghi detentivi. Tuttavia, la probabilità di rischio suicidario sembra aumentare in maniera notevole in presenza di altri disturbi psichici e di precedenti tentativi di suicidio. Infatti, sembra che tra gli individui che hanno fatto ricorso al suicidio, molti avessero avuto in passato dei trattamenti psichiatrici o avesse già messo in atto condotte autolesive. Inoltre, anche l’abuso di sostanze precedente alla carcerazione può essere considerato un fattore predittivo del rischio suicidario all’interno di strutture detentive.

Considerando il contributo di diversi autori, Bourgoin ha rilevato una correlazione tra rischio suicidario e lunghezza del periodo di detenzione e ha affermato che fattori di rischio possono essere la buona integrazione sociale e delle relazioni familiari positive nel periodo precedente la carcerazione. Invece secondo Green non vi sarebbe correlazione tra suicidio e periodo di detenzione e inoltre un fattore di rischio sembra sia l’appartenenza al genere maschile oltre alla presenza di disturbi psichici e all’abuso di sostanze. Anche Hurley ha corroborato i dati secondo cui molti suicidi avverrebbero nei primi periodi di detenzione e soprattutto quando i detenuti sono ancora in attesa del giudizio. Secondo Kerkhof e Bernasco, infine, anche la condizione di straniero andrebbe considerata come fattore di rischio, e ancora per Griffiths la presenza di condanne precedenti costituirebbe un altro elemento predittivo.

Il malessere della spersonalizzazione e le patologie specifiche del contesto carcerario

Il sociologo Erving Goffman ha definito il contesto carcerario un’istituzione totale dove l’individuo deve spogliarsi di tutto ciò che lo caratterizza come persona unica. Infatti, una volta in carcere, il detenuto deve privarsi delle sue cose, della sua identità precedente alla carcerazione e del suo modo di rappresentare sé stesso. Il detenuto, quindi, viene privato del suo ruolo sociale, dei suoi effetti personali, del suo spazio privato e della sua autodeterminazione.  Questa condizione di spoliazione del sé costituisce un fattore patologizzante di entità non trascurabile, per cui molti dei disturbi riscontrati nel contesto carcerario rientrano nel campo dei disturbi reattivi ovvero di quei disordini determinati proprio dalla carcerazione. Tipico è, a tal proposito, il trauma da ingresso, un malessere acuto caratterizzato da problemi cardiaci, digestivi e neurologici, che compare sin dalle prime 24 ore dalla carcerazione e interessa anche soggetti sani.

Tra i più frequenti disturbi psicologici riscontrati durante la permanenza in carcere ci sono disturbi d’ansia, claustrofobia, depressione, stati allucinatori, apatia, disturbi del sonno e dell’alimentazione, deterioramento delle capacità cognitive, disturbi psicosomatici (perdita di appetito, tachicardia, disturbi visivi, malessere generalizzato e acutizzazione di problematiche preesistenti) e disturbi dell’adattamento. Molti detenuti inoltre mettono in atto l’abbandono difensivo, un vero e proprio ritiro dall’ambiente circostante sentito come ostile. Non è da sottovalutare la presenza di condizioni psicopatologiche pregresse la carcerazione come disturbi di personalità antisociale o psicopatico, disturbi dell’umore e dipendenza da alcool e droghe. Spesso il contesto carcerario entra a far parte del circolo vizioso della “porta girevole” (revolving- door syndrome), per il quale individui con grave psicopatologia passano da una struttura di contenimento all’altra senza alcuna prospettiva riabilitativa di reinserimento. La spersonalizzazione, la perdita di autodeterminazione e di identità sono fattori che possono determinare le cosiddette psicosi carcerarie.

Sindrome del guerriero, sindrome persecutoria e sindrome di Ganser

  • Sindrome del guerriero: si tratta di una sindrome che riguarda soprattutto individui particolarmente violenti e con lunga permanenza nel contesto carcerario. Queste persone manifestano un atteggiamento rissoso e tendono a rispondere con lo scontro fisico anche per banali motivi o piccole provocazioni. Questo tipo di detenuti ricorre anche ad espedienti di modificazioni corporee, come vistosi tatuaggi e allungamento delle palpebre, per apparire più aggressivi agli occhi degli altri detenuti;
  • Sindrome persecutoria: si tratta di una sindrome reattiva al contesto carcerario che induce l’individuo ad essere sospettoso, paranoide e a nutrire pesanti aspettative di danno da parte degli altri;
  • Sindrome di Ganser: si tratta di una sindrome che attualmente è inserita tra i disturbi dissociativi del DSM-IV e che si presenta con alterazioni della coscienza, allucinazioni visive ed uditive, disorientamento e comportamenti bizzarri. Questo disturbo caratterizza soprattutto detenuti che sono in attesa del giudizio definitivo e appare come una pseudo-demenza perchè il detenuto assume un atteggiamento puerile e sembra incapace di rispondere anche alle più semplici domande.

Sindrome di prisonizzazione

Questa sindrome è stata individuata anni addietro dallo psicologo Donald Clemmer, si caratterizza come un’adesione ai costumi e alla cultura del contesto carcerario ed è la conseguenza di fattori come privazione della libertà, convivenza in spazi molto ristretti, sospensione di tutte le attività precedenti alla carcerazione, difficoltà nel coltivare interessi propri, presenza di norme di permanenza rigide e limitanti.

Il grado di adattamento al contesto carcerario dipende dal tempo di permanenza in carcere, dall’età, dal livello culturale, dal background di provenienza, dalla personalità del detenuto. La sindrome da prisonizzazione quindi si manifesta con l’adesione al ruolo di detenuto, con l’assunzione di modi diversi di parlare, vestirsi, relazionarsi e appare in maniera evidente durante il periodo centrale della detenzione. Inoltre, l’intensità del fenomeno correla con le recidive perché l’individuo tende ad adattarsi sempre di più al contesto carcerario ad ogni ritorno, facendo proprie condotte devianti che porta anche fuori al momento dell’uscita.

Il contesto carcerario: realtà punitiva o riabilitativa?

Queste sindromi evidenziano una natura più punitiva che riabilitativa dei contesti detentivi che non è funzionale al recupero e al reinserimento sociale del detenuto. Secondo questa prospettiva, il contesto carcerario dovrebbe infatti configurarsi come mezzo di recupero anziché come fine ultimo per l’individuo. La popolazione di detenuti tutt’oggi appare divisa rispetto alle due visioni del contesto carcerario; infatti, metà di essi vivono la detenzione come punizione mentre l’altra metà riferisce che la permanenza in carcere è stato un modo per riflettere su sé stessi e sugli errori commessi. Anche relativamente al rischio di recidiva dopo la permanenza in carcere è evidente una faglia tra coloro che ritengono più probabile che la condotta deviante si ripeta una volta fuori mentre l’altra metà afferma che l’esperienza carceraria non è predittiva di recidive.

Secondo la prospettiva riabilitativa, l’esperienza carceraria dovrebbe anche essere proiettata verso la futura occupazione una volta fuori dal carcere. Infatti, la paura di non riuscire a trovare lavoro dopo la scarcerazione è molto comune tra i detenuti, i quali temono che il loro destino sia quello di dover ritornare in cella. La grande maggioranza dei detenuti afferma che avere la certezza di un’occupazione fuori dal carcere è un fattore che protegge dal rischio di commettere nuovamente dei reati, mentre solo una piccola parte di essi pensa che i reati vengano commessi a prescindere dall’avere o meno un lavoro. Quindi sarebbe importante che le politiche sociali offrano ai detenuti delle occasioni concrete di reinserimento lavorativo per prevenire il rischio che vengano commessi nuovi reati. È necessario prevenire la condizione di estraniamento che caratterizza spesso i detenuti una volta liberi e che si configura come l’incapacità di adeguarsi alla vita sociale esterna.

Verso la riabilitazione nel contesto carcerario

Per fronteggiare questa problematica sarebbe auspicabile l’inserimento di un maggior numero, all’interno del contesto carcerario, di figure educative e di supporto psicologico, ma anche l’assunzione di misure alternative come dei permessi premio affinché si mantenga continuità con la realtà esterna. Anche la stessa sorveglianza da parte degli agenti assume, in questa prospettiva, un carattere dinamico più rieducativo e meno volto al controllo totalizzante dei detenuti nello svolgimento delle attività quotidiane in carcere. Fermo restando che non è sempre possibile attuare questa modalità di sorveglianza, sarebbe utile per i detenuti che venisse pianificato un sistema di attività riabilitative volte a rendere proficuo il tempo trascorso tra le mura del carcere e ridurre sempre più i momenti di ozio.

L’obiettivo ultimo della detenzione dovrebbe essere quello di rendere l’individuo pronto ad immettersi di nuovo nel contesto sociale, per cui ideale sarebbe ridurre il tempo di permanenza all’interno delle celle. Per fare ciò è necessario che gli spazi comuni all’interno del carcere siano abbastanza spaziosi da permettere lo svolgimento di attività nell’area comune. Ciò comporta anche un’organizzazione capillare e strategica della sorveglianza, ad esempio, attraverso una vera e propria sala di regia dalla quale vigilare, garantendo al tempo stesso la possibilità dei detenuti di muoversi all’interno degli ambienti che costituiscono la struttura penitenziaria. È essenziale quindi che la permanenza in carcere sia sempre meno spersonalizzante e permetta ai detenuti di impegnarsi in attività riabilitative e socializzanti in vista del reinserimento all’esterno.   

Fabiana Navarro per Questione Civile

Bibliografia

Baccaro, L.  (2003). Carcere e salute. Padova: Sapere Editions.

Franceschini, A., & Roma, D. S. C. R. C. (2009). La medicina penitenziaria. Trattato di medicina legale e Scienze affini. Padova: Cedam, 8.

Porchetti, R. (2016). Il carcere: tra rischio prisonizzazione e prospettive di recupero sociali. Profiling. I profili dell’abuso, 7(3).

Taggi, F., Tatarelli, R., Polidori, G., & Mancinelli, I. (1998). Il Suicidio nelle Carceri in Italia: Uno Studio Epidemiologico (1996–1997). Rassegna Penitenziaria e Criminologica, 1(3), 197-214.,

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