Ridere per ridere? Mostri “vecchi”, nuovi mostri

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Ridere su cosa, ridere per cosa

«Panem et circenses» scrive Giovenale. L’autore latino in «pane e giochi circensi» esemplifica il bisogno dell’uomo: mangiare e intrattenersi, ancora meglio ‘ridere’. Giovenale sembra riuscire a comprendere i pochi ed essenziali bisogni di uno stile di vita desiderabile.

Ma l’intento di Giovenale non è quello di farsi ben volere dal popolo tutto. Il ragionamento conseguente non è che nelle cose semplici risieda la via per la felicità. No, Giovenale con panem et circenses irride – e non denuncia – la realtà sociale della plebe romana: una bassezza culturale e morale che impedisce al popolo ogni affrancamento dalla propria condizione di inferiorità.

Giovenale non è sicuramente il primo in ordine cronologico a scrivere satire, ma tutto sommato non è assurdo definirlo ‘padre’ del genere.

Satira è una parola complessa, stratificata nel tempo, di etimologia incerta e dal significato sfuggente, almeno finché la satira, superando Giovenale, diventa uno strumento essenziale in ragione del suo fine principale che è uno e uno solo, senza oscillamenti, senza dubbi di sorta: la satira esiste perché essa possa deridere il potere con il solo obiettivo di (di)mostrarne le aporie e le ipocrisie, senza la necessità né la volontà di distruggerlo.

I mostri (1963) di Dino Risi: ridere da soli

Facciamo un salto in avanti di un paio di migliaia di anni. Venti episodi condensati in 120 minuti bastano a Dino Risi, accompagnato dai fluidi Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi, per dimostrare una tesi lineare: l’Italia è un paese di mostri, piccole porzioni di un potere più grande di cui bisogna ridere.

Borghesi, registi, attori, forze dell’ordine, arrivisti, avvocati, deputati, ipocriti di ogni tipo. Questi sono tutti innegabili strumenti di un potere ben riconoscibile, la società dell’individuo. In tutti gli episodi de I Mostri non ci sono virtù, neanche apparenti. Non c’è bontà, non c’è abnegazione, c’è solo il potere del singolo che strenuamente si spende per il suo godimento personale a scapito del prossimo.

Dino Risi ride e fa ridere in ogni modo possibile su padri che insegnano ai figli a vivere in maniera fraudolenta, finché i figli approfitteranno di loro; amici che senza remore derubano la felicità e l’amore altrui; aiuti poi negati nonostante il potere che la ruota cieca della fortuna ha concesso a individui non meritevoli; elusione di ogni obbligo materiale e spirituale al solo scopo di riuscire ad avere un minuscolo attimo di personale felicità.

Dino Risi lo racconta bene come la società del dopoguerra sia cambiata. Quell’utopistica social catena, forse rappresentata da un minuscolo partito quale il Fronte dell’Uomo Qualunque, sicuramente saldo nella memoria del regista, non solo si è sgretolata, ma sta arrugginendo all’aria fetida in cui si trova immersa.

I nuovi mostri (1977): ridere insieme

A meno di quindici anni dalla prima pellicola Dino Risi porta dietro la macchina da presa due amici e colleghi: Mario Monicelli ed Ettore Scola. Ma cos’hanno di “nuovo” questi mostri?

Paradossalmente e apparentemente nulla, almeno a prima vista. Sempre di egoisti si tratta, e il nucleo dei colpevoli viene allargato con nuove ma attese figure come i prelati o gli individui della residuale nobiltà italica. Ma in realtà qualcosa è cambiato ne I nuovi mostri: il gusto dell’orrido.

Il discorso filmico viene spinto oltre dalla compresenza di tre registri campioni nella narrazione delle aporie sociali. Ricordiamo come Ettore Scola sia autore sia di Brutti, sporchi e cattivi (1976) sia de La terrazza (1980), e da parte sua Mario Monicelli ha scritto e sceneggiato un film dal titolo veramente eloquente quale Un borghese piccolo piccolo (1977).

L’incontro di Risi, Scola e Monicelli gratta le unghie sulla lavagna dando adito al rumore del peggio. Di bolgia in bolgia scendiamo a osservare le vite piene di uomini vuoti. Beninteso, piene d’orrore e di scabrosità, tali da attirare la censura della RAI per l’episodio conclusivo della pellicola che lasciava intendere una prestazione attoriale per un film pornografico ai danni di una minorenne, con la promessa di un lauto guadagno per i genitori.

Un episodio: Hostaria!

L’episodio numero quattro de I nuovi mostri potrebbe essere utile a questo punto per spiegare un concetto che sulle prime potrà non apparire immediato. Siamo sicuri però che il lettore, una volta introiettatolo, riuscirà a districarsi meglio entro gli argomenti dell’attualità sociolinguistica relativi a termini e argomenti che violano la sensibilità altrui.

Ci si perdoni la lunga perifrasi ma era necessaria per contestualizzare l’uso che qui intendiamo di politicamente corretto, sintagma delle volte sfuggente e delle altre incomprensibile.

Dicevamo dell’episodio. In un’osteria romana entrano otto commensali dell’alta società con la certezza di mangiare la «vera cucina». Il caposala prende le ordinazioni e torna in cucina dove, spintonando il cuoco, ne provoca l’arrabbiatura. I due iniziano a picchiarsi, a spingersi, urtando e rovinando ogni ingrediente in cucina, ogni piatto in cottura.

Riappacificati, i due si scoprono essere due amanti omosessuali che hanno reagito forse ad una loro crisi di coppia, solo in parte motivata dallo spintone iniziale. La zuppa ordinata, totalmente rovinata e sporcata da altro – anche “ingredienti” poco commestibili come il mozzicone di un sigaro – viene servita agli otto commensali, che lieti e falsamente competenti mangiano di gusto, complimentandosi tra loro per la scelta oculata tanto del ristorante quanto della portata.

Una sequenza comica così esemplificata ha evidentemente due elementi: da un lato, il cuoco e il caposala con la loro lite di coppia, dall’altro i commensali alto-borghesi con le loro moine. Ettore Scola, autore di quest’episodio, vuole irridere gli omosessuali per la futilità della loro lite e le conseguenze disastrose che ne conseguono, o vuole irridere la falsa competenza e l’alterigia borghese? Polarizzando un po’: Scola prende in giro gli omosessuali o i borghesi? È politicamente scorretto?

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Vittorio Gassman (a sinistra) e Ugo Tognazzi (a destra) nell’episodio Hostaria!

Soggetto e oggetto della battuta

Sarà utile, a questo punto, capire cosa sia il soggetto e cosa sia l’oggetto di una battuta. Perché una battuta come qualsiasi atto linguistico risponde anzitutto a esigenze teoriche ineludibili per comprenderla a pieno. Il soggetto della battuta è l’elemento attraverso cui l’oggetto della battuta viene messo in ridicolo.

Se Luca cala le braghe a Marco, Luca è il soggetto di questa frase nonché soggetto dell’atto comico, mentre Marco è oggetto (indiretto, complemento di termine) di questa frase nonché oggetto irriso dall’atto comico.

Alla luce di ciò, in Hostaria! il soggetto sono il cuoco e il caposala che litigando rovinano la cena dei borghesi, oggetto inconsapevole della battuta: il pubblico difatti, se riderà crasso per la farina tiratasi addosso dai due osti, non potrà fare a meno di ridere per la presa in giro a cui i commensali sono sottoposti, loro malgrado.

A dimostrazione di ciò Scola, intelligentemente, in apertura all’episodio fa affermare al leader della comitiva: «questo è un posto della tradizione». Ma questi superbi e morali borghesi non sanno che la loro zuppa non solo ha visto intinta al suo interno una scarpa, ma ha anche visto la preparazione da parte di uomini che loro considerano sicuramente le figure più abbiette da combattere, i deviati da redarguire attraverso la politica e il denaro.

Ridere per ridere allora si può. Ma come si può ridere davvero di un uomo che cade su una buccia di banana, quando si può fare una battuta-contrappasso su colui che quella buccia l’ha gettata in strada.

Salvo Lo Magno per Questione Civile

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