Caso Blair tra giornalismo e fake news negli USA

Caso Blair

Giornalismo e fake news: il caso di Jayson Blair

Come possiamo difenderci dalle fake news quando persino il New York Times ne è colpito a sua insaputa? Ne è un grande esempio, infatti, il caso Blair.

Il New York Times è, infatti, senza dubbio la testata giornalistica numero uno se non di tutta l’America del Nord, certamente di tutta la sua Costa Orientale. Nei suoi centosettant’anni di storia ha fatto della trasparenza e dell’oggettività i suoi due cavalli di battaglia, e certo nella terra della democrazia, guardata dall’alto dalla Signora della Libertà, non stupirà di certo.

Ma il quotidiano statunitense non ha mai dato per scontato i principi della correttezza e della deontologia giornalistica, tanto da istituire in seconda pagina, tra un editoriale e una pubblicità, un angolino pubblico e ufficiale dedicato alle correzioni di errori individuati sia dagli autori che dai lettori: il famoso corrections corner.

Il colosso dell’informazioni, però, si è dimostrato negli utili decenni, un gigante dai piedi d’argilla, tutt’altro che immune agli scandali. Uno di questi investe, nel decennio scorso, proprio la tanta decantata oggettività giornalistica newyorkese.

“Pesce d’Aprile”
-N.5
Questo è il quinto numero della Rubrica di Rivista dal titolo “Pesce d’Aprile“, che parlerà del concetto di “fake news” in vari ambiti. La Rubrica vede la collaborazione tra le Aree di Storia Antica e Medievale, Economia, Affari Esteri, Lettere, Scienze Umane, Storia Moderna e Contemporanea, Arte e Cinema

Chi è Jayson Blair?

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Jayson Blair

Blair è nato a Columbia, nel Maryland, nel 1976, figlio di un dirigente federale e di un insegnante. Frequenta l’Università del Maryland da studente giornalista e nel 1996 diviene il secondo caporedattore afroamericano del giornale studentesco, The Diamondback.

Lavora al New York Times già nel 1998 durante uno stage estivo poi prolungatosi in una proposta di lavoro che Jayson rifiuta. Torna, però, a scrivere stabilmente per la testata nel 1999. La sua carriera è brillante e all’altezza del nome del giornale. Spesso, infatti, viene esaltato per la capacità di accalappiare notizie sensazionali e per la sua abilità di scrittura mantenuta sempre ad alti standard anche nelle situazioni più stressanti.

La scoperta

Tutto sembra andargli per il meglio, ma il 28 Aprile 2003 Blair riceve una chiamata dall’editore nazionale del Times che gli chiede informazioni riguardo un suo pezzo uscito per il giornale due giorni prima. Il caporedattore del San Antonio Express-News lo aveva infatti contattato, chiedendo a sua volta chiarezza circa una somiglianza fin troppo spiccata tra l’articolo di Blair e uno di Macarena Hernandez, una sua giornalista.

È in questo momento che scatta lo scandalo. Blair nega tutto, ma su di lui e sul suo operato giornalistico, vengono avviate delle indagini. Da queste indagini si scopre che quando il giornalista non aveva commesso un plagio, i suoi articoli erano, per intero o in alcuni scabrosi dettagli, frutto di un’ingegnosa invenzione.

Sotto accusa finiscono sette suoi recenti articoli pubblicati dal 30 Ottobre 2002 al 19 Aprile 2003 su argomenti scottanti come la guerra in Iraq. Famoso è lo scalpore creatosi attorno al suo scritto del 3 Aprile “Rescue in Iraq and a ‘Big Stir’ in West Virginia”, in cui afferma di aver scoperto una storia scottante sulla guerra in Iraq dal padre del soldato Jessica Lynch nella città di Palestine in West Virginia.

Blair, come si scoprirà in seguito, non aveva mai parlato con quell’uomo, ma soprattutto non aveva mai visitato la città, né la casa dei Lynch descritta minuziosamente nei suoi articoli.

Lo scandalo del caso Blair

Dopo la scoperta il New York Times non può fare altro che rendere pubblica la cosa e fare ammenda. L’11 maggio pubblica un editoriale (al quale seguirono molti altri) di oltre 7000 parole, di una lunghezza senza precedenti, intitolato “Il reporter del Times che si è dimesso lascia una scia di inganno” in cui definisce l’accaduto come il punto più basso dei 152 anni di storia del giornale.

In seguito, persino gli ex trenta membri del The Diamondback pubblicano un elenco di errori e falsità pronunciate dal giornalista e si dissociano dal suo operato. Milioni di lettori si rivoltano contro il quotidiano e lo inondano di un numero così enorme di proteste che il corrections corner non sarebbe stato in grado di contenerle tutte.

Le inevitabili conseguenze

La reazione a catena generata dall’evento non è finita qui. Molti editorialisti e intellettuali si schierano circa l’accaduto prendendo le parti del giornale, del giornalista o scagliandosi contro entrambi. Il Times decide di revisionare le norme di comportamento per i redattori e pubblica nuovi articoli di scuse e di spiegazioni. Ma questo non si rivela abbastanza. L’ascesa inarrestabile di un giovane reporter che ha sistematicamente mentito ai suoi superiori e al pubblico non può rimanere senza conseguenze.

Richard C. Wald, professore di giornalismo, ha affrontato nella Columbia Journalism Review (luglio-agosto 2003) il caso e ha scritto:

“Se così tante persone non hanno protestato contro un’istituzione come il New York Times, se non correggono migliaia di altri errori in cui incappiamo noi giornalisti, allora la frattura tra stampa e lettori è diventata così profonda da essere problematica per tutti noi. Se l’informazione s’appiattisce e nulla in essa ha più valore, se non conta nulla chi la trasmette, perché “tanto tutti i media sono uguali”, la società civile è in pericolo”.

Alla fine, mesi dopo il licenziamento di Blair, il direttore del Times, Howell Raines e il suo vice Gerald Boyd si dimettono. Molte altre dimissioni seguono queste ultime.

Il caso Blair in Italia

Anche in Italia il caso Blair fu seguito con apprensione. Ogni piccolo tassello della sua storia fu seguito dalle redazioni per la corrispondenza estera delle maggiori testate del nostro Paese e diversi articoli pubblicati sul fatto.

Leggendoli si nota grande indignazione e quasi compiacimento nel notare che uno dei decantati colossi dell’informazione libera e di qualità d’oltreoceano era stato colto in fallo. Nella maggior parte dei report l’indignazione non è, infatti, volta al fatto in sé, ma alla circostanza.

Ciò che stupisce è che gli stessi giornalisti italiani – pur con le dovute eccezioni: indispensabili voci fuori dal coro – diano per scontato che la falsa informazione in Italia si faccia, che la cultura del sensazionalismo abbia semplicemente generato questo piccolo effetto collaterale come se fosse sorvolabile.

Riflessioni sulla vicenda

Di qui una riflessione che umilmente si accoda a quella di Richard Wald: in un mondo democratico come pretende di essere il nostro nella teoria e che, spesso, si tradisce nella pratica, il concetto ed il problema della falsa informazione non è e non può essere di secondaria importanza.

Nel mondo della digitalizzazione l’informazione è fin troppo accessibile, ma non a tutti è concesso o è naturale accedere ad un tipo di formazione tale da saper discriminare la falsa informazione da quella vera. Chi, invece, riesce a farlo davanti ad una notizia infondata o inventata, fidandosi, è ingannato, tradito in quel tacito patto che si stipula tra chi informa e chi è informato.

Il dovere di chi fa informazione è quello di rispettare lo spirito sul quale si fondò la nascita dei primi quotidiani e al di là dell’ambito giornalistico è quello di rispettare il sacro vincolo della Verità.

Joseph Pulitzer, editorialista fondatore nel 1912 della Scuola di Giornalismo della Columbia, nel suo saggio “Sul giornalismo” disse: “per me un giornalista privo di moralità è privo di tutto”.

Alla luce di questo, consci del loro ruolo di creatori di informazione e, quando fortunati, di cultura, tutti gli scrittori e giornalisti in ogni parte del mondo colgano il suo monito e formino prima loro stessi per poi formare il resto di noi.

Noemi Ronci per Questione Civile

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