Filologia quattrocentesca: tra Valla e Poliziano

Filologia umanistica, due metodi a confronto: Lorenzo Valla e Agnolo Poliziano

Filologia in quanto termine, letteralmente “amore per la parola”, designa l’insieme delle operazioni volte alla ricostruzione e all’interpretazione di documenti letterari. Nonostante sia d’uopo collocare la nascita del metodo moderno nel XV secolo, la filologia ha radici ben più antiche: basti pensare alla fervida attività che si svolgeva presso la biblioteca di Alessandria d’Egitto. Era lì che, già tra il IV e III secolo a. C., gli studiosi si preoccuparono di sistematizzare i testi omerici, influenzandone fortemente la trasmissione.

La spinta propulsiva data dagli Alessandrini al metodo filologico è innegabile: nei secoli a seguire in Grecia e a Roma ci fu chi si preoccupò della normalizzazione dei testi e di renderli più comprensibili ai lettori. E, proprio dalla necessità di sciogliere passi di difficile interpretazione, si giunse alla creazione di testi attendibili e corredati da commenti.

Sebbene con intenti e finalità differenti, l’interesse per i documenti letterari non scomparve, mutarono però le modalità d’approccio. Dobbiamo – convenzionalmente almeno – aspettare il periodo denominato Umanesimo per collocare le basi del moderno metodo filologico, sebbene ne sia ravvisabile il germe già nell’operato petrarchesco.

L’Umanesimo e la riscoperta dei classici

Molto probabilmente la spinta alla ripresa degli studi classici in Italia fu dovuta dalle attività svolte presso la scuola di Diritto Bolognese. Lì si formavano giuristi e notai, i quali, come base della loro formazione giuridica, avevano ricevuto insegnamenti retorici e grammaticali. Questi, esperti dell’antica arte del dictamen (del dire, dell’eloquenza), permettevano loro di padroneggiare bene il latino e di avere un «forte senso dello stile»[1]. Di fatti, i primi umanisti furono proprio notai e giuristi.

In Copisti e filologi viene soprattutto ricordato sia l’impulso dato da personaggi come Lovato Lovati e Francesco Petrarca. Letterati, questi, capaci di trasmettere il loro amore per i classici col ruolo chiave rivestito dalle biblioteche italiane. I classici non furono soltanto oggetto di mero studio, ma una fonte di eloquenza dalla quale attingere; la mimesi e la padronanza dell’oratoria classica diedero potere agli Umanisti, che la utilizzavano per i propri scopi.

Pian piano, però, l’attenzione per i classici non si rivolse soltanto al bisogno di imitarne lo stile: vi fu la voglia di avvicinarsi allo spirito classico, di capirlo, imitarlo per travalicare i confini temporali. E, soprattutto, si sentì il bisogno di approcciarsi ai valori della classicità, ai suoi mores maiorum (usi degli antenati) senza la mediazione della religione. Si ricusava, in poche parole, quest’ultima che per tutto il medioevo aveva fatto da filtro, e ci si avvicinava alla cultura con una modalità nuova: laica e profana.

La filologia umanistica

Da questa nuova finalità di approccio ai classici derivarono caccie ai manoscritti e nuove modalità di fruizione. La prassi più gettonata della filologia umanistica prevedeva la realizzazione della costitutio textus (costituzione del testo) principalmente grazie all’erudizione dello studioso. Gli umanisti volevano capire subito i testi e metterli in circolazione, per cui molto spesso le operazioni editoriali furono veloci e superficiali: il ricorso ai codici avveniva solo raramente, infatti, questi venivano spesso considerati meri contenitori di testo.

Si pensi a Ermolao Barbaro, secondo il quale l’autenticità di un testo veniva garantita dalla convergenza di testimonianze tra auctores (autori o, meglio ancora, autorità) greci e latini: i vari codici servivano soltanto ad analizzare la validità del testo sul quale stava lavorando. Nasceva quindi una filologia che poneva sotto osservazione varie fila della tradizione classica e importantissimi divenivano anche le conoscenze linguistiche e antiquarie.

Punte di diamante della filologia, o meglio delle filologie, quattrocentesca furono Lorenzo Valla e Agnolo Ambrogini, il Poliziano. Esponenti di due modi di fare filologia diversi. Sarà il metodo del Poliziano ad affermarsi, poi, secoli dopo, come metodo filologico maggiore.

La filologia di Lorenzo Valla

La figura di Lorenzo Valla è una figura controversa investita da luci e ombre: le prime dovute alla sua opera filologica, le seconde al suo carattere aggressivo e iroso. Forse il più grande erede degli insegnamenti petrarcheschi, Valla intese la filologia come mezzo per rifondare i saperi. Mediante la filologia Valla era in grado di minare quelle che erano considerate certezze assodate: tutto veniva a porsi sotto il suo vaglio, non esisteva il concetto di auctoritas (autorità), né di ipse dixit (lui disse).

Analizzava implacabilmente il tutto grazie alla superiore ed eccelsa conoscenza della diacronia della lingua latina: il linguaggio col suo uso e il suo contesto era al di sopra delle astrazioni filosofiche, delle certezze dogmatiche. Proprio grazie all’attenzione riservata alla parola e alle sue proprietà sarebbe stato possibile andare sub cortice e rifondare la parola. Ciò avrebbe voluto dire rifondarne il concetto, e rifondarne il concetto avrebbe voluto dire rifondare la realtà che quella parola designava.

Valla parte dall’idea che per rifondare la lingua occorresse rifondare la grammatica: da ciò deriva il suo trattato teorico, le Elegantie latine lingue. Al suo interno si propone di restaurare il genio linguistico.
Facendo leva sulla conoscenza dell’evoluzione linguistica del latino, Valla costruisce le sue requisitorie. Si faccia riferimento al De professione religiosorum; in questo dialogo prende di mira gli ordini religiosi, definendoli sette. Basando la sua tesi sull’etimologia e sul reale significato dei termini afferenti alla sfera religiosa, nega che la religiosità sia appannaggio soltanto della classe clericale.

Il De falso credita et ementita Constantini donatione Declamatio

L’esempio più famoso di filologia “valliana” resta senza dubbio l’opera nella quale il filologo prende di mira la “donazione di Costantino”. Con questo documento l’imperatore dell’Impero Romano d’Oriente avrebbe ceduto alla Chiesa la parte occidentale dell’Impero.

Grazie a questo documento la Chiesa aveva rafforzato il suo potere su tutta l’Europa Occidentale. Nel corso degli anni ci si era interrogati sulla validità giuridica del documento, ma nessuno aveva mai attaccato apertamente la Chiesa, proclamandone la falsità. Valla basò la sua requisitoria proprio sulle incongruenze linguistiche che emergono dal documento, riuscendo a confutarne la veridicità: troppi termini che non sarebbero potuti essere utilizzati all’epoca di stesura del documento.

Attraverso la filologia, la ricerca del vero, mediante l’accuratezza dell’analisi linguistica Valla riesce nel suo intento di rifondazione di saperi umani. Una rifondazione che può investire ogni ambito sociale, politico e culturale.

La filologia di Agnolo Ambrogini, il Poliziano

Da un lato, dunque, abbiamo Valla che basava principalmente il processo filologico sull’emendatio (la correzione) alla quale giungeva dopo uno studio attento della diacronia linguistica e dell’usus scribendi (abitudini di scrittura) dell’autore; Valla che ricorreva al confronto tra i codici soltanto come extrema ratio (estrema decisione) e punto di verifica; Valla al quale si devono le Emendationes liviane, nel quale individuava le tipologie di errori generati dai copisti.

Dall’altro c’è Poliziano al quale si deve la creazione del moderno metodo filologico. È lui a dare inizio alla considerazione dei processi di trasmissione, a valutare cronologicamente i manoscritti. Durante la correzione dei testi Poliziano inizierà a ricorrere ai codici in modo sistematico, esaminandone il più possibile, alla ricerca della lezione più attendibile. Il codice più antico trovato veniva schedato con una sorta di carta d’identità e di ognuno veniva svolto un prototipo di collazione, venivano annotate le lezioni degne di nota.
a tutto ciò si aggiungeva anche la ricerca del manoscritto più antico recante la lezione erronea da emendare e da ciò deriva la creazione di rudimentali stemmata codicum (schema dei codici).

Sebbene la collazione talvolta risultasse imperfetta, venivano annotati i luoghi guasti, al posto delle lezioni errate, gli si deve il merito di identificare i descripti, termine con cui si designano quei codici copia, inutili alla ricostruzione del testo, a fronte del codice da cui erano stati copiati che il filologo già possedeva.

Rosita Castelluzzo per Questione Civile

Bibliografia e sitografia:

  • M. Bertè – M. Petoletti, La filologia medievale e umanistica, Bologna, Il Mulino, 2017;
  • G. Cappelli, L’umanesimo italiano da Petrarca a Valla, Roma, Carrocci Editore Aulamagna, 2018;
  • P. Chiesa, La trasmissione dei testi latini. Storia e metodo critico, Roma, Carrocci Editore, 2019;
  • V. Fera, Problemi e percorsi della ricezione umanistica in G. Cavallo, A. Giardina, P. Fedeli, Lo spazio letterario di Roma antica, Vol. III, Roma, Salerno Editrice, 1991, 513-543;
  • L. D. Reynolds – N. G. Wilson, Copisti e filologi. La tradizione dei classici dall’antichità ai tempi moderni, Editrice Antenore, Roma-Padova, 2016;
  • https://www.treccani.it/enciclopedia/filologia_%28Enciclopedia-del-Novecento%29/.

[1] D. Reynolds, N. G. Wilson, Copisti e filologi. La tradizione dei classici dall’antichità ai tempi moderni, Editrice Antenore, Roma-Padova, 2016, 116.

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