La considerazione della follia nell’antica Grecia dall’età arcaica all’età classica
La follia è uno dei grandi temi su cui l’essere umano si è sempre interrogato, come l’amore, la felicità, la morte, il destino, l’esistenza di una realtà trascendentale o l’ineluttabilità di un universo meccanicistico. Al di là del modo in cui la pazzia è comunemente considerata, – una condizione psico-somatica patologica che rende l’individuo che ne è affetto “diverso”, e, con giudizio ancor più negativo, “deviante” rispetto alle norme stabilite dal gruppo sociale di appartenenza e considerate l’unico stile di vita socialmente possibile e accettabile – essa è stata giudicata, nel corso della storia occidentale, anche nei termini positivi della via d’accesso ad un mondo libero dalle asfissianti convenzioni imposte dalla società, o a livelli di conoscenza preclusi a coloro che rimangono saldamente ancorati alla realtà.
L’antica Grecia e il suo rapporto costruttivo con la follia
Parte del merito di un simile approccio costruttivo alla follia è da imputarsi all’antica civiltà greca, che è la radice prima della cultura occidentale e sulla natura e lo statuto della follia si interrogò costantemente, intrattenendo con essa un rapporto dialettico. Se da un lato era ritenuta il buio baratro del sonno della ragione, dall’altro era vista come un’esperienza spirituale totalizzante capace di dischiudere al folle una realtà “altra”, ma non per questo meno degna di essere conosciuta ed indagata.
La follia, quindi, poteva assurgere nella cultura ellenica anche a forma superiore di sapienza. I Greci, infatti, ebbero la virtù di comprendere che essa consente di conoscere qualcosa in più dell’essere umano, di scandagliare quegli abissi della psiche che normalmente rimangono reclusi a chi abbia il pieno dominio della propria razionalità, ma che comunque esercitano la loro influenza su ogni individuo anche negli atti più banali della quotidianità.
La follia secondo i sapienti greci di età arcaica
In età arcaica, in particolare, i modelli di pensiero impiegati per indagare la realtà erano alquanto differenti rispetto ai procedimenti puramente razionali che prevalsero in età classica, quando il trionfo razionalistico diede un nuovo impulso alla filosofia e alla medicina, e ad un approccio laico e rigoroso alla ricerca della verità, depurato da credenze religiose e fondato sul principio della stretta collaborazione tra esperienza sensibile ed intelletto.
I sapienti presocratici, invece, accanto all’esercizio della logica nuda e cruda, si avvalevano anche di forme di pensiero simbolico e analogico e non di rado erano dediti alla meditazione profonda, alla divinazione e a pratiche rituali, tra cui il culto dionisiaco, che inducevano in chi le sperimentasse visioni o stati alterati di coscienza.
Con parole concise Giulio Guidorizzi traccia un quadro illuminante del pensiero greco arcaico: “La sapienza greca (come è stato detto) ha origini oscure, dentro e fuori dalla ragione, poiché in questi sapienti la conoscenza passa attraverso la vita, e la vita contiene in sé ragione e non ragione”.
Per i pensatori arcaici, la conoscenza acquisita attraverso forme irrazionali di pensiero godeva della stessa considerazione di quella conseguita per mezzo della logica razionale. Anzi, quelle pratiche e quelle manifestazioni della vita mentale che noi oggi facciamo ricadere nel concetto di “irrazionale”, per i Greci di epoca arcaica non erano l’opposto della ragione, bensì una forma “altra” di ragione stessa, un pensiero divergente, valido e persino superiore a quello logico-razionale, perché frutto dell’incontro dell’umano col divino.
La sua considerazione in età classica
Tuttavia, con l’affacciarsi del V secolo a.C. e l’avvento della sofistica, la pazzia non fu più vista come l’altro lato della razionalità, bensì ragione e follia furono concepite come due componenti inseparabili, ma distinte e contrastanti, dell’animo umano. Parallelamente, sul finire dello stesso secolo la medicina conobbe una fase di straordinario avanzamento, grazie al quale per la prima volta il discorso sulla follia fu slegato dal fattore religioso.
Gli eventi mentali fuori dalla norma furono studiati come disturbi mentali, la cui causa fosse da ricercarsi non nell’universo divino, bensì nella mente stessa e nel corpo dell’individuo malato. La follia, pertanto, da un punto di vista medico fu concepita né più e né meno come una malattia.
Dalla prospettiva della riflessione etica fu vista come il punto più basso dell’uomo, l’espressione del suo deterioramento spirituale, una devianza morale causata dal cedimento agli istinti e alle passioni che lo abitano. Eppure, il dibattito sulla follia non si fermò qui, e, sebbene il suo statuto stesse cambiando, il valore che le fu attribuito continuò ad essere duplice.
Grazie alla loro costante indagine, dall’ambito filosofico a quello religioso, dal campo medico a quello artistico-letterario, i Greci furono consapevoli di quanto le manifestazioni della pazzia fossero molteplici e variegate, e tale consapevolezza si riflette nella riflessione dei più grandi pensatori greci.
La follia in Platone: il mito della biga alata
Platone presenta nella sua opera due visioni della follia che, se ad una prima analisi appaiono incompatibili, in realtà rappresentano i due poli su cui la filosofia greca si muoveva nel suo ostinato sforzo di afferrare questo aspetto così sfuggente dell’esistenza umana.
Nel Fedro, dialogo platonico che ha per argomento la follia d’amore, nella finzione letteraria il filosofo fa enunciare al suo maestro Socrate il famosissimo mito dell’auriga e della biga alata, che trasfigura allegoricamente l’anima dell’uomo e le sue componenti. Il carro alato è trascinato da due cavalli, l’uno bianco e di nobile aspetto, l’altro nero, deforme e con gli occhi iniettati di sangue.
Il primo trascina la biga verso il mondo delle Idee ed è il simbolo della parte di interiorità più volitiva e audace che spinge l’uomo verso la conoscenza. Il destriero nero, al contrario, traina il carro verso il basso, verso il mondo sensibile della materia, dei piaceri e delle passioni, e si configura come la parte dell’uomo più oscura e indomabile, poiché scalpita per conquistare la sensazione di appagamento immediato che i beni terreni sono in grado di offrire.
Nella perenne ricerca di nuovi bisogni da soddisfare, il cavallo nero allontana l’uomo dall’unico vero fine cui ogni esistenza dovrebbe aspirare, la ricerca del Bene, e ne corrompe l’animo irrimediabilmente. All’auriga è affidato il difficile compito di tenere a bada i destrieri e guidarli nella direzione dell’Iperuranio, dove risiedono le Idee (e dunque la vera conoscenza).
Egli è la personificazione dell’anima intellettiva, dunque della facoltà razionale che nella riflessione platonica è la parte più nobile dell’uomo, cui quotidianamente spetta l’obbligo di mediare tra i due impulsi contrastanti che si agitano nella psiche nella direzione della vita morale.
Come devianza morale
La follia nasce quando l’auriga perde il controllo del cavallo nero, facendosi trascinare nell’abisso degli istinti e delle pulsioni, ovvero, quando cioè la forza della ragione, indebolita dal cedimento costante ai piaceri immediati, perde la prerogativa di controllare l’uomo e lascia campo libero allo sfogo delle sue manifestazioni più turpi.
Da questa prospettiva, quindi, la follia non può che essere giudicata negativamente come il baratro in cui sprofonda chi, per ignoranza o deliberata scelta, abbandona la via del Bene. L’amore stesso, fulcro del dialogo in questione, è dapprima giudicato da Socrate come un desiderio irrazionale che prende il sopravvento sull’inclinazione a perseguire ciò che è retto, ed in quanto tale è fonte di numerosi mali per l’uomo.
La follia come dono divino
In seguito, tuttavia, Socrate pronuncia una palinodia del suo discorso che perviene alla conclusione opposta: l’amore è una forma di manía (μανία), e la manía è un dono divino che dischiude all’uomo scenari sorprendenti e inattesi.
Platone, dunque, ammette nella sua filosofia l’esistenza di forme di pazzia la cui causa profonda non è la degradazione morale, bensì l’influenza di un dio che genera forme di pensiero e di comportamento diverse dal consueto, e attraverso cui l’uomo sperimenta in forma potenziata i doni dell’amore e della gioia e una conoscenza di grado superiore, perché ispirata dalla divinità.
I quattro tipi di “divina follia” secondo Platone
Il filosofo distingue quattro tipi di divina follia. La follia mantica di Apollo che desta nelle sue sacerdotesse la virtù della profezia, la follia poetica delle Muse che infonde ai poeti l’ispirazione, la follia d’amore di Eros e Afrodite che trasforma l’anima degli amanti donando loro la massima felicità, ed infine la follia telestica di Dioniso, una forma di psicosi collettiva che suscita nei partecipanti ai suoi riti un beato oblio.
Giulio Guidorizzi spiega così l’elogio platonico della divina follia: “In fondo è come dire che l’estetica, la religione, i poteri intuitivi dell’anima e l’amore sfuggono a ogni controllo razionale e vanno trasferiti su un’altra sfera, e che dopo avere gettato questo ponte al di là della mente razionale l’umanità può spingere lo sguardo in un segreto “oltre” e di lì trarne forme meravigliose di esperienza”.
Martina Marzo per Questione Civile
Bibliografia:
- Giulio Guidorizzi, Ai confini dell’anima. I Greci e la follia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010.
- Eric Dodds, I Greci e l’irrazionale, Bur Rizzoli, Milano 2009