Le Baccanti: l’eterna lotta tra ragione e follia

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La riflessione sulla fragilità della ragione umana nelle Baccanti di Euripide

Le Baccanti di Euripide inscenano in maniera magistrale l’ambiguità connaturata a Dioniso e al suo culto, e ripropongono con ineguagliabile intensità drammatica le riflessioni cardine del teatro euripideo. La fragilità della ragione umana, il conflitto tra razionale e irrazionale, il duplice sentimento di devozione e timore nei confronti degli dèi, percepiti ora come amici e compagni dell’uomo, ora inflessibili e sprezzanti della sofferenza umana, sono i grandi temi dell’ultimo dramma euripideo.

La premessa e il prologo delle Baccanti

Nella premessa della tragedia, mentre Penteo, re di Tebe, è distante dalla sua terra, la città viene colpita da una strana epidemia che affligge tutte le donne tebane. Senza distinzione alcuna di età, rango e status coniugale, hanno abbandonato figli, casa e famiglia e si sono recate sugli aspri declivi del Citerone a celebrare i riti dionisiaci. Tebe, dunque, è rimasta priva delle sue abitanti.

Nel prologo del dramma Dioniso, figlio di Zeus e della principessa tebana Semele spiega di essere giunto in città dopo una lunga peregrinazione in terra asiatica, durante la quale si è rivelato dio ai mortali e ha istituito i suoi cori e i suoi riti in ogni città in cui si è recato. Dopo aver convertito al suo culto l’Oriente, dalle coste dell’Asia minore fino all’Arabia, è il momento di imporre la sua autorità anche in Grecia. Tebe è la prima città ellenica in cui il dio si manifesta, poiché, pur essendo la sua terra natale, la sua natura divina è qui messa in dubbio e derisa.

Persino le sorelle della madre, Agave, Ino e Autonoe, hanno insinuato che Semele abbia mentito sull’identità di colui col quale ha concepito il figlio, il dio Zeus, e sia stata sedotta invece da un uomo qualunque. Anche Penteo, figlio di Agave, inorridisce dinanzi al comportamento delle tebane ed è irremovibile nel non voler riconoscere nella loro follia una manifestazione del dio. Dioniso, dunque, è tornato in patria per vendicare sé stesso e la madre, accomunati dal triste destino di essere scherniti proprio da coloro che più di tutti dovrebbero conoscere la verità. Si presenta tuttavia sotto le mentite spoglie di un giovane sacerdote frigio fedele a Dioniso, giunto a Tebe per diffondere il culto del suo dio.

L’inflessibilità di Penteo

Nella reggia di Penteo i soli a riconoscere la potenza di Dioniso sono Cadmo, fondatore di Tebe, nonché padre di Semele e nonno di Penteo, e l’indovino Tiresia. Col procedere dell’azione teatrale, tuttavia, diviene sempre più evidente come la loro adesione al culto bacchico sia solo una formalità. Nel primo episodio del dramma Penteo entra in scena e pronuncia una violenta invettiva contro le baccanti tebane, – che nel frattempo ha arrestato e

chiuso in prigione – accusandole di utilizzare il pretesto di onorare Dioniso per dedicarsi a continui amplessi con uomini sconosciuti al riparo dei boschi.

In risposta alle sue empietà, Tiresia pronuncia un discorso lucido e misurato, che metta in guardia il suo sovrano dal rischio di peccare di superbia e dare per scontato che le proprie opinioni siano le uniche valide e giuste. Il veggente e il vecchio re ammoniscono Penteo dal non irritare Dioniso con il suo rifiuto, e lo invitano a venerare il dio non per la sua grandezza e generosità, bensì perché non si incollerisca. La loro adesione al culto è solo esteriore, orientata unicamente a lasciare intatto l’ordine precostituito, che l’avvento del dio, se non accolto, rischia di scalzare.

Penteo e il coro delle Baccanti: due mondi in conflitto

Alla fede formale dei due anziani fa da contraltare la fede autentica e sincera del coro della tragedia, costituito dalle baccanti che il dio ha legato al suo culto in Asia, coloro che venerano il dio con intimo fervore e ora costituiscono il suo fedele esercito. Sul terreno della tragedia, dunque, si profilano due fronti opposti. Da una parte vi sono Cadmo e Tiresia, che esortano Penteo ad imboccare la strada di una saggezza pragmatica di impostazione fortemente razionalistica, che persuada il re a professare una fede di facciata.

Dall’altra si trovano donne che vengono da terre barbare, da un mondo che i Greci immaginavano speculare e contrario rispetto al proprio, donne emarginate per la loro provenienza e per il loro sesso, che nel culto dionisiaco hanno trovato il riscatto dalle opprimenti maglie del loro isolamento istituzionalizzato. Sulle vette del monte tebano, infatti, lontano da figli, mariti e dalle soffocanti mura domestiche, le baccanti sperimentano una libertà illimitata, altrimenti impensabile nella loro esistenza ai margini della vita sociale e cittadina.

Con incredibile modernità Euripide dà voce qui, attraverso il coro, a chi nell’antica Grecia, e specialmente nell’Atene di V secolo, la propria voce non poteva usarla: donne e barbare, il massimo esempio di discriminazione ed esclusione dalla società. Quando nel corso dell’azione drammatica Penteo parla e il coro risponde, lo scontro non avviene solo sul terreno della fede dionisiaca, bensì sono due interi mondi ad entrare in collisione. Le baccanti, che sulle vette del Citerone danno sfogo a pulsioni e istinti e contravvengono alle regole della vita cittadina, sono testimoni di una realtà diversa e conturbante, tanto più scioccante quanto più si allontana dai valori fondanti del razionalismo imperante nella cultura greca di età classica, di cui Penteo, Tiresia e Cadmo, anche se con atteggiamenti diversi, sono i rappresentanti.

Le Baccanti e la critica al razionalismo

Nelle Baccanti la parte più oppressa della società trova però uno spazio di espressione nel coro, e la verità che esso mette sotto gli occhi del pubblico è una pungente critica al trionfo del razionalismo.

Cantano infatti le baccanti ai vv. 395-397:

“il sapere non è saggezza/ e travalicare l’umano intendimento/ significa vita breve”1.

La vera conoscenza, dunque, non è unicamente quella che scaturisce dall’ordine e dal raziocinio, e chiunque creda che la ragione abbia un potere tale da innalzare gli uomini al di sopra della loro stessa umanità, – fatta di ragione, ma soprattutto di non ragione, di sentimenti, di impulsi, di passioni laceranti – è destinato a scontrarsi con una realtà che non perdona.

La dichiarazione del coro configura una verità “altra” rispetto a quella che i razionalisti dell’epoca, rappresentati nei loro aspetti più inflessibili nella figura di Penteo, propagandavano orgogliosamente. E non possono che essere delle barbare, la parte “altra” della società, a portarla sulla scena di una tragedia dedicata, per l’appunto, al dio dell’alterità e della contraddizione.

L’agone dialettico tra Penteo e Dioniso

Il sovrano rimane sordo alle esortazioni alla prudenza dei due anziani uomini, e quando il dio viene catturato e trascinato in ceppi dinanzi a lui nella sua reggia, ancora nelle false vesti del giovane baccante straniero, ne è affascinato. Ma nega a sé stesso la strana attrazione che nutre nei suoi confronti, fino a che, tuttavia, non sarà costretto a cedere, e il cedimento gli sarà fatale.

Il tono severo e minaccioso che Penteo aveva utilizzato fin dal suo ingresso in scena, infatti, si ammorbidisce nel momento dell’incontro con Dioniso. La sua attenzione è completamente assorbita dall’aspetto voluttuoso e femmineo del giovane, che risveglia in lui una forte suggestione erotica repressa. Tra i due si instaura un serrato botta e risposta che assume i toni di una gara di eloquenza, e le domande che il sovrano rivolge al suo interlocutore tradiscono un’irresistibile curiosità per i riti bacchici, fino a un momento prima aspramente condannati.

Penteo non chiede apertamente, ma è chiaro al lettore/spettatore che l’oggetto dei suoi interrogativi sia uno solo: capire se durante i rituali avvengano degli amplessi. Ma Dioniso non appaga mai la curiosità di Penteo, bensì la stuzzica per far esplodere le pulsioni sessuali represse che l’uomo tiene a bada a stento. L’agone dialettico tra i due si trasforma presto in una gara di corteggiamento, in cui perde chi cede per primo.

Dioniso seduce Penteo

Non appena Dioniso sa di aver solleticato il desiderio di Penteo a sufficienza, gli chiede quale sia la terribile pena alla quale sarà sottoposto.

La risposta dell’uomo, oltre che risultare ridicola, rivela in maniera inequivocabile come la scintilla erotica sia ormai divampata:

“Prima cosa. Questo tuo ricciolo delicato lo taglierò”.

Tagliare un ricciolo e tenerlo per sé significa voler possedere il corpo del giovane straniero. In qualche modo è una dichiarazione malcelata di volervi avere rapporti sessuali. La replica di Penteo, quindi, dimostra come Dioniso eserciti un fascino ammaliante e irrefrenabile anche in coloro che oppongono più resistenze.

La conclusione burlesca del dialogo, con Penteo – rappresentante del razionalismo sofistico di età classica – pesantemente sconfitto dalle sue stesse parole, è una conferma ironica e pungente della sentenza che il coro aveva pronunciato poco prima: “il sapere non è saggezza”.

Il concetto è ribadito da Dioniso con rinnovato vigore poche battute dopo: nel momento in cui Penteo ordina ai suoi servi di imprigionarlo, egli riafferma la sua superiorità: “Io dico di non legarmi, io saggio a chi saggio non è”. Ancora una volta, dunque, Euripide ribadisce sulla scena la logica “altra” di Dioniso, per cui la vera e più autentica saggezza è accogliere le proprie pulsioni, sia negative che positive, accettarle e dar loro spazio anche quando sono contrarie alla ragione. Saggezza non è forzare la ragione a reprimere tutto ciò che sfugge al suo ferreo controllo: è scendervi a patti per non esserne sopraffatti.

La fine di Penteo

Dioniso è poi trascinato nelle mangiatoie della reggia e qui viene rinchiuso, ma Penteo, invece che legare le sue mani e i suoi piedi, stringe nei lacci un toro credendo si tratti del giovane baccante lidio, e infine il dio scatena un terremoto che distrugge la reggia tebana. L’episodio è centrale nell’opera, poiché segna l’inizio della fine di Penteo.

Ormai ridotto alla pazzia e soggiogato al volere del dio, Penteo è persuaso da Bacco a travestirsi da menade e unirsi alle danze sfrenate delle baccanti sul monte Citerone. Qui Dioniso intima alle sue seguaci di punire l’uomo per la sua empietà, ma la pena che lo attende è feroce. Le donne si avventano sul loro sovrano, ma sarà la madre Agave, in preda al delirio dionisiaco e perciò incapace di ragionare, a sbranare il figlio scambiato per un leone, tra le vane preghiere dell’uomo di essere riconosciuto e risparmiato.

La conclusione delle Baccanti e l’ambiguità del messaggio euripideo

Nel crudele epilogo della tragedia, Dioniso cambia volto. Il dio gioioso che incita i suoi devoti al libero sfogo dei propri istinti si trasforma infine in una divinità sadica e implacabile, pronta a suscitare il più empio ed efferato dei crimini (il matricidio) pur di dimostrare la sua superiorità. Il motto delle baccanti “il sapere non è saggezza”, e l’invito che ne consegue a non fare un uso spietato e inflessibile della ragione, a questo punto della tragedia, in cui è il dio stesso a rivelarsi ferreo e intransigente al pari di Penteo, non appare più valido e credibile.

Qual è, allora, il vero messaggio di Euripide? Da quale parte sta, dalla parte di Penteo o dalla parte di Dioniso? Che cosa ci vuole dire con la sua ultima tragedia? La risposta si trova nelle parole di Giulio Guidorizzi:

“Forse la morale – se pur ne esiste una – delle Baccanti è questa: la salvezza non c’è da nessuna parte. Così l’ultima tragedia del teatro attico, alla fine del V secolo, sembra concludersi con il riconoscimento di un dilemma irresolubile, e che l’ottimismo della ragione e la fede nel progresso – atteggiamenti entrambi fondamentali nell’età di Pericle – trovano un limite in quella parte oscura e sempre presente che l’uomo porta con sé”.

Martina Marzo per Questione Civile

Bibliografia:

Euripide, Le Baccanti, a cura di Vincenzo Di Benedetto, BUR Rizzoli, Milano 2023.

Sitografia:

La follia sacra – Fondazione Lorenzo Valla

Note

1 Euripide, Le Baccanti, a cura di Vincenzo Di Benedetto, BUR Rizzoli, Milano 2023, p. 207.

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