L’ipotesi Sapir-Whorf e il relativismo linguistico

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L’ipotesi Sapir-Whorf: come il linguaggio influenza la nostra mente

L’ipotesi del relativismo linguistico o ipotesi Sapir-Whorf, ovvero la teoria secondo la quale il linguaggio è in grado di influenzare la nostra mente, potrebbe sembrare a prima vista una tesi complottistica. Il pensiero non può che dirigersi immediatamente alla Neolingua di Orwell. In 1984 c’erano effettivamente dei “poteri forti” dediti alla programmazione del linguaggio al fine di controllare le modalità cognitive del popolo.

Ciononostante, la situazione è ben più banale e ovvia di quanto non si pensi, e per certo molto meno pericolosa. Al giorno d’oggi gli studi effettuati dalle scienze cognitive hanno ormai ampiamente dimostrato che la mente umana funziona attraverso delle dinamiche di stampo linguistico. La coscienza, in qualche modo, parla: ha un lessico, una sintassi e una morfologia.

La domanda sorge spontanea: quale lingua parla? Ogni individuo umano parla e quindi pensa tramite le caratteristiche della propria lingua madre? O, al contrario, esiste un linguaggio universale, a priori, che ogni parlante possiede a prescindere dalla propria appartenenza ad una comunità linguistica?

I predecessori

Che il pensiero e il linguaggio siano collegati è un’ipotesi molto meno recente di quanto si possa immaginare.

Il primo a introdurre formalmente l’assunto all’interno della riflessione occidentale fu il linguista e filosofo Wilhelm von Humboldt, vissuto tra Sette e Ottocento. Egli considerava le lingue come prismi riflettenti la realtà, in grado di strutturarla a piacimento. Ogni popolo e ogni cultura possedeva il proprio linguaggio e di conseguenza una propria visione del mondo; imparare una nuova lingua significava pertanto ottenere un nuovo punto di vista.

Dopo essersi sedimentata nel corso dei secoli all’interno del pensiero occidentale, l’ipotesi è riemersa in superficie grazie al lavoro del padre dell’antropologia moderna, Franz Boas.

Il nome di Boas viene ricordato innanzitutto per aver introdotto il concetto di relativismo culturale, l’idea secondo la quale ogni cultura possiede la propria unicità che la rende incomprensibile a chi non la vive dall’interno. Questo assioma, oltre a fondare le basi dell’antropologia scientifica, ha avuto soprattutto il merito di disperdere qualsiasi residuo di razzismo che ancora permaneva nella disciplina.

Inoltre, il relativismo culturale ha posto le basi per quella che di lì a qualche decennio verrà formulata come “la teoria del relativismo linguistico”. Studiando le popolazioni native americane, Boas si rese conto delle drastiche differenze in termini di categorie grammaticali da una lingua e l’altra. Ipotizzò dunque che tali categorie potessero in qualche modo vincolare la cultura – e quindi il pensiero – dei loro parlanti.

Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf

Uno dei più validi allievi di Franz Boas fu Edward Sapir. Sapir si avvicinò alla linguistica ben più di quanto avesse fatto il maestro, e per tale motivo proseguì i suoi studi al riguardo lasciati incompleti.

Sin dagli albori dei suoi lavori, Sapir afferma con certezza che non è la dimensione lessicale quella sulla quale porre le dovute attenzioni. Non sono le parole a modificare la nostra percezione della realtà. Il lessico è lo strato più superficiale della lingua, e come tale non ha un adeguato peso cognitivo. Bisogna scendere più in profondità, a livello della morfologia: in quel caso il linguaggio diveniva un fenomeno talmente sistemico da poter effettivamente influenzare il parlante.

Lo studio sui morfemi venne completato dall’allievo di Sapir, Benjamin Lee Whorf, e nacque così ufficialmente l’ipotesi che prende il nome dai due linguisti. Il lavoro di Whorf si concentrò inizialmente sull’analisi della lingua hopi, parlata da alcune comunità di nativi in Arizona del Nord. Secondo lo studio, la lingua hopi possedeva l’assoluta particolarità di essere una lingua senza tempo. La morfologia temporale a cui siamo abituati noi parlanti occidentali sarebbe drasticamente diversa, e di conseguenza gli Hopi possiederebbero una concezione del tempo lontana dalla nostra. Whorf arrivò a sostenere che un parlante Hopi, seppur arretrato culturalmente rispetto al parlante medio occidentale, riuscirebbe a comprendere con più facilità la teoria della relatività proprio in virtù della propria diversa cognizione.

Partendo da queste premesse, Whorf sfociò ben presto in una conseguenza teorica che viene definitiva “determinismo linguistico”, una sorta di estremizzazione dell’ipotesi originale. Essa afferma che il pensiero e il linguaggio non si troverebbero solo in un rapporto di reciproca influenza, bensì il primo sarebbe determinato dal secondo.

Le confutazioni dell’ipotesi Sapir-Whorf

Un’accezione così forte dell’ipotesi causò, come era prevedibile, numerose opposizioni. Ritenere che la lingua determinasse del tutto le strutture mentali concedeva troppo potere alla dimensione culturale, lasciando poco margine di libertà ai singoli parlanti. Oltretutto, il pensiero umano stesso ne usciva tragicamente ridimensionato: la tradizione filosofica sa bene che esistono numerosi concetti che il linguaggio non riesce ad esprimere.

Al di là di queste resistenze di natura astratta, il dibattito accademico dei decenni successivi presentò molteplici confutazioni linguistiche che andavano ad intaccare l’ipotesi.

Una prima incrinatura alla teoria proviene dagli studi di Ekkehart Malotki, il quale si premurò di documentare e commentare le numerosissime espressioni di tempo presenti nella lingua Hopi.

La seconda confutazione proviene dalla credenza, diffusa proprio a partire dalla divulgazione dell’ipotesi Sapir-Whorf, secondo la quale il vocabolario degli Inuit possiede un ampio numero di parole per indicare la neve. Il linguista Geoffrey Pullum non si è limitato unicamente a dimostrare la falsità di questo assunto, ma ha attaccato il cuore pulsante della teoria considerandola banale. Ironizzando, ha fatto notare come gli esperti di vino dispongano per certo di un vocabolario più ricco del normale per descrivere le sfumature di gusto, ma la loro mente non funziona in maniera diversa.

La versione “debole” dell’ipotesi Sapir-Whorf

Date queste critiche, non sorprende che il dibattito accademico abbia progressivamente dimenticato l’ipotesi Sapir-Whorf. Ci si chiede allora come e perché sia tornata all’attenzione di tutti negli ultimi decenni, ponendosi addirittura come base d’appoggio per numerose teorie cognitive.

L’errore principale che ha determinato l’abbandono dell’ipotesi è stato certamente la sua estremizzazione. Lo stesso Sapir avvertiva che un’influenza reciproca – e non certo una determinazione univoca – tra lingua e pensiero potesse avvenire solo nella dimensione più intima delle strutture linguistiche, ovvero nella morfologia. I linguisti hanno perciò recuperato l’ipotesi ignorando le derive lessicali e concentrandosi sulle componenti meno superficiali. Tra di esse spiccano: la categorizzazione dello spazio e del tempo, le flessioni del genere, l’ordine sintattico tra soggetto, verbo e oggetto, e così via.

Nasce così la cosiddetta “versione debole” dell’ipotesi Sapir-Whorf. Non si può parlare di vero e proprio determinismo quanto di una convenzionalità: le esperienze vengono codificate a livello cognitivo attraverso la verbalizzazione, e la lingua offre al parlante degli stampi attraverso i quali gestire al meglio i concetti da esprimere. Di conseguenza, diverse lingue con diverse strutture grammaticali prevedono diverse convenzioni, le quali tuttavia non devono essere considerate assolute.

In altre parole, si può – e si deve – pensare anche al di fuori della lingua.  

Una diversa concezione del tempo

Riporto un esempio per dimostrare il corretto utilizzo dell’ipotesi Sapir-Whorf.

Qualche anno fa, le università di Lancaster e Stoccolma organizzarono un esperimento. Furono convocati un gruppo di parlanti svizzeri e un gruppo di parlanti spagnoli e si chiese loro di stimare la durata del tempo che passava. Nel mentre, davanti ai due gruppi furono posizionati sia una linea che scorreva lungo uno schermo sia un contenitore che si riempiva. Il risultato fu sorprendente: a seconda della lingua cambiò l’espressione linguistica adoperata per descrivere lo scorrere del tempo. Gli spagnoli preferirono ricorrere al contenitore che si riempiva, mentre gli svedesi alla linea che cresceva. Da ciò i linguisti compresero che le lingue neolatine – come lo spagnolo – preferiscono indicare la durata in termini di quantità e volume, mentre le lingue germaniche – come lo svedese – in termini di distanze fisiche.

Aldo Baratta per Questione Civile

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