L’osceno messo in scena da Aldo Nove nel postmodernismo

osceno

Aldo Nove e l’esibizione dall’osceno alla violenza

All’interno dell’opera di Aldo Nove si assiste a una frequente messa in scena dell’osceno, e soprattutto del violento. Ciò dipende da un sovvertimento delle logiche di rappresentazione avvenuto durante l’episteme postmoderno. Il mondo, a partire dagli ultimi decenni, è divenuto un immenso palcoscenico: tutto può essere mostrato, non c’è più nulla biasimabile di immoralità e dunque non adatto alla messa in scena.

La fascinazione che il modernismo traeva dal chiaroscuro della rappresentazione si rivela insufficiente davanti alla pretesa della visibilità integrale e ininterrotta avanzata da una società nella quale la comunicazione è costrizione e l’informazione è pornografia.

Allo stesso tempo, il turpe ottiene una valenza estetica quando esagerato, assoluto nel debellare le tonalità di grigio a favore di un male puro e banale nella sua mancanza di complessità e sfaccettature. Una tale inflazione disinnesca la potenza denunciativa dell’osceno, specie se coniugato in atto violento: la violenza viene defraudata della tensione dialettica che le compete, e la sua propagazione castra l’affezione che dovrebbe suscitare mitigandosi in immagine stantia; il male non è più politica e scandalo come nel modernismo, eccezione che va preservata per finalità suggestive, bensì ennesima merce da confezionare in massa.

La narrativa di Nove si fonda allora sull’infrazione dei codici inibitori e sulla conseguente banalizzazione dell’efferato. I suoi personaggi vivono in una civiltà allucinata nella quale la violenza è quotidianità e l’osceno è spettacolo; il disgusto davanti a certi contenuti viene soppiantato da una prosa alessitimica che si impegna nell’attestazione accurata di quanto accade.

L’osceno ne Il mondo dell’amore

Ne Il mondo dell’amore, la videoregistrazione di uno stupro, di un omicidio e di una castrazione non incute nei protagonisti alcun sentimento di repulsione né tantomeno un effettivo interesse:

E si vedono tre pirla che strisciano per terra in un parco e aprono una Skoda dove dentro ci sono due tipe con i peli sotto le ascelle che lesbicano un po’ e i tre pirla le violentano con la voce del professore bestiale che spiega questa violenza sessuale causata da scazzi con i genitori dei tipi. Infine, i pirla trascinano fuori una delle due lesbicone insanguinata dai cartoni che le hanno rollato in faccia e l’ammazzano sulla ghiaia dopo averle estratto una tetta. Quel video era una palla! Non si poteva vederlo così, siamo andati avanti con lo scorrimento veloce e c’era sempre il professore che spiegava. […]

C’era questa inquadratura di uno con le cosce aperte. Primo piano: cazzo. Poi gli si avvicina un chirurgo coi bisturi, inizia a devastargli la cappella, da sopra, come se non era niente: fiotti di sangue. […] C’era un macello di sangue, in mezzo al video. Il professore spiegava che era una castrazione.[1]

L’intromissione del professore e dei suoi commenti smorza il racconto, rendendo ordinario ciò che dovrebbe essere straordinario: la violenza si raffredda e guadagna un rilievo accademico – la spiegazione plausibile dietro la condotta disumana dei giovani, la chiosa sul concetto di castrazione. Dato anche l’andamento descrittivo della scena, l’atto assume una connotazione quasi etologica, come se la videocassetta stesse documentando il comportamento di esseri animali e non di esseri umani – costringendo perciò all’immediata sospensione del giudizio morale.

La violenza in Superwoobinda

In molti dei racconti di Superwoobinda, una diegesi incongruente contribuisce a trivializzare le violenze inscenate tanto da sfiorare il paradosso e il surreale. In Il bagnoschiuma, ad esempio, il narratore protagonista tradisce un certo autismo per le associazioni cognitive che lo persuadono e per l’impossibilità di comprendere l’anomalia delle sue gesta:

Ho ammazzato i miei genitori perché usavano un bagnoschiuma assurdo, Pure & Vegetal. Mia madre diceva che quel bagnoschiuma idrata la pelle ma io uso Vidal e voglio che in casa tutti usino Vidal.[2]

La psicologia tratteggiata da Nove non è vittima di intenzioni malvagie o perturbazioni emotive; al contrario, è genuina e cristallina nell’ostentare la logicità e la legittimità delle sue motivazioni – non senza una dose di vittimismo.

In Jasmine, la convenzionalità della violenza si attua a livello formale tramite la gestione del livello dispositivo:

Jasmine era morta. […] Jasmine è un maiale, non si butta via niente. Le aprii la bocca e le misi dentro il cazzo. […] Dopo un’ora di queste cose eravamo rotti e misi Jasmine dentro un sacco della spazzatura che aveva mio fratello in casa. Lo legai con il fiocco dell’uovo e portai Jasmine alla discarica. Sentivo Jasmine andare giù dalla scarpata. Andai da Quinto a prendere un gelato da diecimila.[3]

La regia che presiede il racconto sottrae al crimine il rilievo scenico che dovrebbe spettargli: la noncuranza cognitiva con la quale il protagonista va a mangiare un gelato come se nulla fosse, pur essendosi appena macchiato di omicidio e necrofilia, coincide con la direzione del flusso informativo il quale si sposta da una vicenda all’altra senza soluzione di continuità; è il portamento del discorso a regolarizzare quanto riferito in un succedersi paritario degli eventi. 

La violenza in La vita oscena

Col romanzo La vita oscena, l’esibizione dell’osceno conquista consistenza concettuale a partire dal genere narrativo di appartenenza. In quanto prima vera opera autobiografica, con la sua composizione Nove smette di indugiare sul margine tra il resoconto fattuale e la reinvenzione controfattuale delle proprie esperienze. Al contrario, riporta senza alcun filtro di sorta il proprio vissuto, ignorando la censura garantita dalla rimasticazione finzionale e abbandonando di conseguenza qualsiasi imbarazzo autoriale.

Ciò che non ha mai avuto la sfrontatezza di inscenare viene adesso inscenato: la morte precoce dei genitori, l’alcolismo, la perdita della casa e dei possedimenti a seguito di un incendio colposo, il tentativo di suicidio, l’uso di cocaina, la frenesia sessuale, etc. La vita oscena si colloca all’estremo speculare rispetto alla poetica dello scandalo pasoliniano.

Nove racconta gli aspetti più indecorosi della sua intimità non per molestare e turbare bensì per soddisfare una rinnovata vocazione alla sincerità e all’autenticità; racconta perché si sente in dovere di consegnare al suo lettore l’esposizione più trasparente possibile, candida a dispetto della sporcizia morale che contiene.

L’oscenità si capovolge in purezza: «Lessi l’intero servizio, le parole, parole volgarissime e sacre, ripetizioni liturgiche dell’osceno, entravano in me una a una, come purificando i pesieri da tutto ciò che non fosse sporco e non fosse lì»[4]; la linea che separa sacralità e profanità, liturgico e blasfemo, si fa labile, indice di quanto il metro assiologico difetti davanti alla nitidezza dell’immondo. L’euforia sessuale è tale che Nove – così come il soggetto tardocapitalistico – ne è assuefatto, «anestetizzato. Quasi indifferente»[5]. Ciò che La vita oscena racconta è la «normale aberrazione»[6] che la società contemporanea alimenta.

Aldo Baratta per Questione Civile

Bibliografia

  • Nove Aldo, Il mondo dell’amore, in Gioventù cannibale, a cura di D. Brolli, Torino, Einaudi, 1996.
  • Nove Aldo, Superwoobinda, Torino, Einaudi, 1998.
  • Nove Aldo, La vita oscena, Torino, Einaudi, 2010.

[1] Aldo Nove, Il mondo dell’amore, in Gioventù cannibale, a cura di D. Brolli, Torino, Einaudi, 1996, pp. 58-59.

[2] Id., Il bagnoschiuma, in Id., Superwoobinda, Torino, Einaudi, 1998, p. 7.

[3] Id., Jasmine, in Id., Superwoobinda, cit., pp. 109-110.

[4] Id., La vita oscena, Torino, Einaudi, 2010, p. 61.

[5] Ivi, p. 70.

[6] Ivi, p. 70.

+ posts

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *