Il morbo di Alzheimer e i disturbi della memoria

morbo di Alzheimer

Morbo di Alzheimer, invecchiamento e memoria: nuove prospettive per il benessere di questi pazienti

Invecchiare è fisiologico, fa parte del ciclo di vita dell’essere umano. Grazie ai progressi della medicina e della tecnologia, ad oggi la vita si è allungata molto, ma non sempre ad un aumento dell’età vissuta corrisponde una migliore qualità di vita. Questo a causa dell’aumento delle malattie croniche che costituiscono ad oggi la prima causa di morte e disabilità. Il morbo di Alzheimer è la più comune forma di demenza dell’età avanzata. Si riconoscono delle forme sporadiche, che sono la maggioranza, e delle forme familiari.
È una malattia molto temuta che condiziona fortemente la qualità di vita del paziente ma anche dei familiari: si stima che in Italia ci siano circa 600 000 persone affette da Alzheimer, ma che più di 3 milioni siano coinvolti nella loro assistenza

Il morbo di Alzheimer: cenni e fisiopatologia

Clinicamente questo tipo di demenza si manifesta con un progressivo deterioramento della memoria, dapprima di quella a breve termine, secondariamente anche di quella a lungo termine.
La memoria, la depositaria delle nostre esperienze, viene corrotta giorno dopo giorno dalla progressione della malattia fino a invalidare la nostra capacità di autodeterminazione.

L’Alzheimer si caratterizza per una perdita neuronale e atrofia corticale che dapprima interessa la corteccia ippocampale, entorinale, il sistema limbico e quindi interessa anche le aree della neocorteccia. A livello microscopico è possibile riscontrare le placche senili, extracellulari, e accumuli neurofibrillari, citosolici. Le placche senili sono formate da Aβ amiloide (42). Questa deriva dalla APP (amiloid precursor protein), espressa sulla membrana dei neuroni.
L’amiloide è una proteina aberrante in cui predomina la struttura secondare del β foglietto e che precipita formando delle fibrille insolubili che causano la formazione delle placche.
Gli accumuli neurofibrillari, invece, sono formati dalla precipitazione di proteine tau (importanti proteine stabilizzatrici dei microtubuli) iperfosforilate.

L’esito è, a livello del soma del neurone, lo spostamento del nucleo in una posizione eccentrica, a costituire una cellula a “fiamma”.
Le forme geneticamente determinate possono essere causate da mutazioni nelle preseniline, nelle secretasi, o nella APP. Anche nella sindrome di Down c’è un rischio aumentato di Alzheimer disease (AD), poiché il gene che codifica per la APP mappa sul cromosoma 21 che è presente in triplice copia in questi pazienti. Si verifica per tanto un aumento del prodotto genico e anche del suo prodotto di scarto: l’amiloide.

Clinica del morbo di Alzheimer

Il paziente può presentare inizialmente un mild cognitive impairment, contraddistinto da deficit mnesici prima coinvolgenti la memoria di lavoro. Questo fa sì che il paziente ripeta spesso le stesse domande e abbia delle difficoltà a concentrarsi, a tenere a mente le nuove informazioni e quindi ad apprendere.

Un altro segno sono le anomie che rendono il linguaggio difficoltoso a causa dei problemi a reperire le parole. Più avanti con la progressione della malattia si può anche riscontrare una afasia più evidente, anche della comprensione.
Sono anche presenti dei problemi visuo-spaziali e visuo-percettivi ovvero problemi a visualizzare correttamente le relazioni spaziali: la prospettiva, la tridimensionalità degli oggetti, le dimensioni e talvolta anche le forme degli oggetti. È difficile quindi sia afferrare una mira sia copiare immagini più o meno elementari, a seconda del livello di progressione di malattia.
Possono presentarsi anche aprassia (incapacità di compiere movimenti coordinati e finalizzati in assenza di deficit motori o della volontà) e disturbi psichiatrici quali: ansia, depressione, irritabilità e anche deliri e allucinazioni.  A causa dell’alterazione dell’orientamento spazio-temporale questi pazienti possono vagabondare e sono soggetti a cadute.
Altri disturbi di interesse più internistico che interessano questi pazienti sono: disfagia, incontinenza urinaria e fecale, problemi della deambulazione, instabilità posturale e cadute ricorrenti, problematiche infettive (soprattutto respiratorie come la polmonite ab ingestis che è una comune causa di exitus).

Diagnosi

La diagnosi di AD è prettamente clinica e si avvale di test neuropsicologici somministrati dal neurologo e corredati da una buona anamnesi nella quale si tenta di ricostruire, con l’aiuto dei caregivers, l’esordio e la progressione dei sintomi.
Ci si può avvalere di test ematochimici di base e di una RM encefalo che permetterà di evidenziare la presenza di atrofia corticale, in special modo a livello della corteccia temporo-mesiale, nonché di idrocefalo ex vacuo. Altre tecniche di imaging permettono di evidenziare i marker biologici in vivo della malattia, ma sono usati spesso a scopo di ricerca: ad esempio la PET o la SPECT che tracciano la amiloide.
Anche l’esame del liquor potrebbe costituire un ausilio diagnostico rilevando una riduzione della amiloide (a causa di una sua precipitazione nella ECM) e un aumento della proteina tau (come conseguenza della sua liberazione dai neuroni in via di degenerazione).

Cenni di trattamento del morbo di Alzheimer

Nelle fasi iniziali di malattia, dal momento che una delle prime modificazioni biochimiche che si verificano è la perdita di neuroni colinergici (contenenti acetilcolina) nei neuroni del nucleo di Meynert e non solo, una delle terapie più utilizzate è quella con anti-colinesterasici.
Questi inibiscono l’enzima colinesterasi che è responsabile della degradazione, a livello della fessura sinaptica, dell’acetilcolina.

L’esito sarà un aumento dell’emivita di questo neurotrasmettitore e un aumento del segnale che da questo è veicolato. A questa classe di farmaci appartiene la rivastigmina.
Un’altra classe di farmaci è rappresentata dalla memantina: un inibitore del recettore NMDA per il glutammato e sembrerebbe avere degli effetti benefici nel rallentare la progressione del deficit cognitivo.
Uno dei farmaci più recentemente approvati è l’Aducanumab (FDA 2021), un anticorpo monoclonale che lega la amiloide aumentandone la clearance (eliminazione). L’efficacia di questo farmaco è ancora controversa, ma tutto sembra suggerire che il massimo beneficio se ne trarrebbe dal suo uso nelle fasi precoci della malattia, quando l’amiloide si sta depositando ma non ha ancora prodotto la perdita neuronale che sarà substrato anatomopatologico dei deficit cognitivi dell’AD.

Promuovere il benessere nell’invecchiamento

Oltre al trattamento farmacologico, esistono diverse tecniche di riabilitazione per i disturbi dell’invecchiamento e della memoria. L’obiettivo di queste è il ripristino dell’autonomia funzionale, ovvero la capacità del paziente di svolgere autonomamente le attività di vita quotidiana e di orientarsi autonomamente nel suo spazio.
La riabilitazione cognitiva è una tecnica utile nelle demenze perché tali pazienti spesso non hanno una carenza su una singola abilità cognitiva, ma hanno uno spettro di deficit. Questa strategia fa ricorso anche al training dei familiari del paziente con demenza, coinvolge altre figure professionali (terapisti occupazionali, logopedisti, educatori…), lavora sulla consapevolezza del paziente e sul suo ambiente di vita quotidiana.
Su questa stessa linea, si può ricorrere all’uso di ausili mnestici che possono essere ambientali, ma che sempre di più stanno lasciando spazio a quelli di tipo tecnologici. Gli ausili ambientali prevedono l’uso di tecniche carta e penna per ricordare le cose, ad esempio fare delle liste, mettere gli oggetti che occorrono al paziente in delle posizioni che permettono che siano facilmente visti e facilmente accessibili, o chiedere a qualcuno di ricordargli alcune cose.
Gli ausili tecnologici vengono invece costruiti appositamente per i pazienti, tenendo conto dell’ambiente in cui vive. Ma possono comprendere anche l’uso di agende computerizzate, o sveglie per ricordarsi le cose.

Prevenire le demenze: è possibile?

Il training cognitivo si basa sulla cosiddetta ipotesi della riserva cognitiva e della plasticità cerebrale e si può usare sia per la riabilitazione delle demenze, che per la loro prevenzione. Il training cognitivo riduce la probabilità di sviluppare una demenza di Alzheimer e di migliorare le capacità cognitive, o comunque di rallentare la comparsa dei sintomi.
Secondo l’ipotesi della plasticità cerebrale, il nostro cervello si adatta continuamente, creando delle nuove connessioni per compensare un danno. Questo processo in realtà non interviene solo in processi patologici, ma anche nei processi di apprendimento.
Sulla base dell’ipotesi della plasticità cerebrale, esistono tecniche di neurostimolazione che stimolano alcune aree del cervello con l’obiettivo di riattivarle: ad esempio la Stimolazione Transcranica in Corrente Continua (tDCS) e la stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (rTMS).


Questi metodi sono scientificamente fondati, sicuri e sono stati sottoposti a rigidi trial per ottenere prove sulla loro efficacia.
Il deterioramento cerebrale porta inevitabilmente a delle conseguenze anche sul piano emotivo e comportamentale.
Infatti, non è insolito che pazienti con danni cerebrali provenienti da demenze o da altre condizioni croniche (come l’HIV) vadano incontro ad un cambiamento comportamentale e di personalità. In particolare, questi pazienti possono essere più disinibiti e comportarsi in modo “bizzarro”.

Aspetti psicologici delle demenze

La depressione nell’anziano è un tema molto complesso in cui vari fattori entrano in gioco e contribuiscono alla deflessione dell’umore in età geriatrica.
Dal punto di vista fisiologico, la morte di un certo numero di neuroni e i danni cerebrali conseguenti comportano uno squilibrio dei neurotrasmettitori coinvolti anche nella regolazione delle emozioni, e dunque responsabili dell’umore dei pazienti. Vi è inoltre la perdita di autonomia e la percezione, quando presente, del paziente di stare invecchiando e di essere più lento.
Da un punto di vista sociale, spesso purtroppo l’invecchiamento è una fase di vita in cui gli individui si ritrovano in un isolamento sociale e devono affrontare dei momenti difficili tra cui la perdita del coniuge, di amici e di altre figure a loro vicini. Inoltre, l’invecchiamento è una fase in cui ci si trova a fare un bilancio di vita, e possono tornare alla memoria anche traumi e perdite passate.
Un fenomeno interessante è quello della pseudodemenza depressiva. Si tratta di una perdita delle funzioni cognitive, che possono essere attribuibili ad una demenza o al Morbo di Alzheimer, che mascherano in realtà i sintomi di una depressione.
Tuttavia, spesso questi pazienti sono molto consapevoli ed enfatizzano i loro sintomi. Tale consapevolezza non è compatibile con le demenze “pure”, in quanto i pazienti con il Morbo di Alzheimer o con altre patologie dell’invecchiamento, difficilmente si rendono conto del loro declino.

La perdita di memoria e una sorta di rallentamento cognitivo sono spesso dei sintomi della depressione o di un episodio depressivo maggiore, per questo bisogna sempre fare attenzione a porre una corretta diagnosi differenziale.

Francesco Lodoli e Chiara Manna per Questione Civile

Sitografia

www.neurocaregroup.com

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