John Fante: la letteratura italoamericana di successo

John Fante

John Fante: biografia e produzione letteraria tra inchiostro e vino

John Fante può essere considerato senza particolari resistenze come uno dei più importanti, conosciuti e rinomati autori della letteratura italoamericana. Figlio di un immigrato abruzzese e di una italoamericana di seconda generazione, nasce a Denver l’8 aprile 1909.

Egli si distingue sin dalla giovinezza per un carattere turbolento, difficile, ambizioso e al contempo in qualche modo picaresco.

Decide ben presto di farsi strada nella società americana del periodo interbellico tramite la sua scrittura, imponendosi sul palcoscenico della Los Angeles degli anni ’30 con un sogno letterario. Dopo alcuni romanzi più o meno di successo si impantana però nella scrittura di sceneggiature per Hollywood, sicuramente redditizia ma poco soddisfacente dal punto di vista artistico. Soltanto negli ultimi anni – tormentato dalle conseguenze del diabete – riuscirà a tornare nuovamente nel mondo della letteratura da lui tanto osannata.

Al netto di un’esistenza – sia biografica che lavorativa – non del tutto felice, Fante ottiene comunque un posto nella storia letteraria occidentale per via dell’enorme influenza che ha esercitato sulle generazioni successive di scrittori americani, primo fra tutti quel Charles Bukowski che non esiterà a definirlo suo maestro e a pubblicizzare le sue opere liberandolo dall’anonimato causato dalla prigionia hollywoodiana.

John Fante: uno scrittore prigioniero

Ma John Fante non è stato prigioniero solo della scrittura hollywoodiana. La sua opera, pur se riscoperta e rivalorizzata grazie alla mediazione di Bukowski, è stata accolta dal mondo accademico secondo una prospettiva limitata e limitante, che non coglie del tutto le potenzialità e i caratteri propri della poetica autoriale.

Fante viene considerato dai più come uno scrittore migrante. Infatti i suoi romanzi vengono catalogati secondo l’etichetta di letteratura etnica, in quanto voce di un italoamericano che cerca di sopravvivere e affermarsi in una società e in una cultura dalle quali si sente estraneo e straniero. Ciononostante, dietro la penna di Fante si nasconde molto di più: una scrittura ragionata, articolata, quasi ingegneristica.

Non si limita a riprodurre in maniera trasparente la realtà dell’immigrazione, ma tenta di proseguire un discorso autoriale e interautoriale che dalle innovazioni del modernismo si muove verso uno stile e una prassi narrativa unici e inaspettatamente significativi.

Sarebbe perciò proficuo indagare la scrittura di Fante più da vicino, scoprendone i risvolti tecnici e le architetture inusuali per un’opera che viene intesa come una semplice documentazione degli immigrati italiani.

Confessione o convenzione?

Uno dei primi e maggiori interpreti del nostro autore, Richard Collins, legge l’opera fantiana come una lunga «literary confession», atta a testimoniare con massima sincerità e assoluta trasparenza le vicissitudini a cui va incontro un italoamericano di quegli anni. Collins ha sicuramente ragione nell’attribuire alla confessione l’adeguato rilievo tematico all’interno dell’economia narrativa fantiana. Tuttavia, esagera nel collocarla in una dimensione morale e autobiografica che si reputa solo complementare nelle intenzioni dell’autore.

La confessione, così come tutti gli altri aspetti dovuti all’origine cattolica e alla formazione in un collegio gesuitico, è solo un pretesto narrativo, uno stampo per la scrittura.

Accettando l’interpretazione di Collins essa viene, al contrario, assunta a struttura fondante dell’opera stessa, a principio ispirante, con la conseguenza di trasformare la vocazione letteraria di Fante in una forma di redenzione, in un bisogno etico-spirituale, annichilendone la portata estetica.

Intendere la produzione fantiana come una lunga confessione, come un’attività intimistica e personale, oscura del tutto i meccanismi testuali, le strategie retoriche, l’abilità dell’autore stesso nonché la sua poetica autoriale, imprigionandolo in un’impostazione autobiografica che non le si addice del tutto.

Fante non vuole documentare, vuole fare letteratura; il modello della confessione, del racconto sincero, è solo una convenzione tramite la quale Fante imbastisce un discorso puramente autoriale ed estetico. Le situazioni che Fante riporta sulla pagina scritta sono state probabilmente vissute davvero dall’autore, ma l’intento nel rappresentarle non è quello testimoniale, quanto al contrario quello di trasfigurare la vita in arte.

Fante non usa di certo la letteratura come veicolo per esporre se stesso, perché dietro il suo fare letterario c’è soltanto altra letteratura, in una narrazione ben ragionata – in una parola, “autoriale” – che rimanda sempre a se stessa e ai propri modelli intratestuali e intertestuali. Non c’è alcuna esperienza, alcuna interiorità da confessare.

John Fante e il racconto Altar Boy: lo scherzo di un chierichetto

D’altra parte, quanto detto finora era ravvisabile sin dal primo vagito narrativo di Fante. Il racconto Altar Boy, pubblicato sulla rivista Mercury nel luglio del 1932 – a tutti gli effetti il suo primo lavoro edito – è un concentrato di poetica fantiana, un perfetto biglietto da visita per introdurci alla sua produzione. Sembra davvero che l’autore, all’epoca della stesura appena ventitreenne, abbia riassunto e anticipato cinquant’anni di operato in poche pagine.

L’anonimo protagonista, un irriverente chierichetto nel quale Fante ha probabilmente riversato le tormentate vicissitudini spirituali a cui era andato incontro a quell’età, si rende artefice di una bravata giovanile, e non sembra far altro che riprodurre quanto l’autore effettuerà lungo tutto il corso della sua carriera letteraria: prima della celebrazione della messa riesce a scambiare il vino dell’eucaristia con del comune inchiostro rosso.

“Altar Boy”: inchiostro e vino, realtà e finzione

Allo stesso modo, Fante giocherà in ogni sua opera con i confini della realtà e della finzione, confondendone continuamente le dimensioni. Il vino è forse il maggior archetipo della poetica di Fante, e sin dal primo momento ha connotato simbolicamente la questione identitaria, il legame familiare e, attraverso questi, il rapporto con la realtà.

Anche a causa delle sue origini cattoliche, per Fante parlare di vino equivale a parlare di sangue, e nella fattispecie del sangue dei propri simili, della propria famiglia, della propria etnia, del popolo italoamericano.

Ecco però che la semplice bravata di un dispettoso chierichetto può illuminarci inaspettatamente su un’intera produzione autoriale: il vino – il sangue, la realtà dell’etnia migratoria – viene scambiato con dell’inchiostro – con la finzione, con un filtro letterario e retorico. Il risultato è un intruglio chimico confuso, dentro il quale non si riesce a separare la bugia dalla verità. Questa natura diluita appartiene anche all’opera fantiana, in una scrittura che confonde ininterrottamente il dato biografico col materiale retorico, la confessione con la convenzione, il vino-sangue di una famiglia italoamericana e delle sue vicende quotidiane con l’inchiostro di un autore esperto e conscio dei propri utensili narrativi.

Conclusione: vino e inchiostro insieme

Alla luce di quanto detto, si potrebbe allora sciogliere la diatriba interpretativa e definire la produzione fantiana come una sorta di “confessione convenzionata”. La scrittura di Fante tende certamente ad un andamento confessionale. Essa viene plasmata secondo la discorsività tipica di un’ammissione di colpe davanti ad una figura moralmente superiore e quindi giudicante, ma ciò si conserva unicamente come un’intelaiatura argomentativa, un esoscheletro semiotico utilissimo a veicolare le intenzioni autoriali.

Aldo Baratta per Questione Civile

Bibliografia

Collins Richard, John Fante. A Literary Portrait, Guernica Editions, New York, 2000.

Fante John, The Wine of Youth. Selected Stories, HarperCollins Publishers, New York, 1985.

Pettener Emanuele, Nel nome del padre, del figlio e dell’umorismo. I romanzi di John Fante, Franco Cesati Editore, Firenze, 2010.

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