Gaza City come Troia e Cartagine: assedi e responsabilità

Gaza City

Gaza City tra storia e tragedia: la memoria del mondo antico tra assedi e guerre dimenticate

Arde Troia di nuovo, ma il suo nome è Gaza City. Le mura crollano, le case cadono, le urla dei bambini si confondono col fumo. Non è l’Eneide a raccontarlo, ma le immagini che scorrono sugli schermi. Cambiano i nomi dei popoli e dei nemici, non cambia il destino dei vinti. Essere ridotti a cenere, senza che ne resti memoria se non nei lamenti.

Gli storici antichi, i poeti tragici e gli autori epici hanno rappresentato conflitti, assedi, distruzioni e sofferenze civili. Non solo come fatti militari, ma come drammi collettivi, interrogando il rapporto tra potere e giustizia, forza e vulnerabilità, memoria e oblio. Mettere a confronto Gaza con l’esperienza greco-romana non significa ridurre l’attualità a semplice allegoria, né pretendere di trovare nei classici risposte pronte. Significa piuttosto attingere a un patrimonio simbolico che ha già visto la guerra nella sua interezza e che ci obbliga a riconoscere quanto poco sia cambiato seppur a distanza di secoli.

Gaza City e il paradigma dell’assedio

Pochi eventi condensano l’orrore della guerra come un assedio. Una città circondata, privata di viveri e acqua, bombardata fino a crollare. Gli assedi sono da sempre momenti di massima violenza e i testi antichi ne conservano memoria spietata.

Nel 146 a.C. Roma rase al suolo Cartagine, dopo tre anni di assedio. Polibio ricorda che la città, un tempo rivale dell’Urbe, fu distrutta sistematicamente, “Ridotta nella rovina più completa[1]. Non si trattava solo di vincere militarmente, ma di cancellare l’esistenza stessa di un popolo. Una logica che ritroviamo nelle distruzioni sistematiche che avvengono nella Striscia di Gaza, dove la sproporzione dei mezzi militari si traduce in devastazione urbana e nel collasso di una comunità civile.

Anche la guerra del Peloponneso offre un precedente illuminante. Lo storico greco Tucidide racconta la sorte dei Meli, abitanti di una piccola isola neutrale, che Atene volle sottomettere. Nel celebre dialogo[2], gli Ateniesi non mascherano la logica della forza: “Il forte fa ciò che può, il debole subisce ciò che deve”. Una formula che riecheggia nella retorica odierna delle potenze militari: la sicurezza di uno giustifica la distruzione dell’altro, con i civili che non sono altro che ostaggi delle logiche geopolitiche.

L’assedio, per gli antichi come per noi, diventa simbolo della disumanizzazione. Non più guerra tra eserciti, ma annientamento di una popolazione. Gaza, come Cartagine o Melo, è ridotta a paradigma della sproporzione tra chi ha il potere e chi non può che subirlo.

Gaza come “tragedia”

Se gli storici descrivono la logica della guerra, i poeti tragici danno voce al dolore delle vittime. Euripide, con straordinaria modernità, ha messo in scena il lato umano e non eroico della guerra: le donne, i bambini, i vinti. Nelle Troiane la regina Ecuba, ormai schiava, piange non solo la perdita della città ma la sorte delle figlie, destinate alla violenza dei vincitori. Le sue parole sembrano scritte per le madri palestinesi: “Che cosa intorno a me non è di lacrime desideroso? Patria, sposo, figli scomparsi”. Non c’è eroismo, solo disperazione e impotenza.

Anche la letteratura latina riprende questo topos. Virgilio, nel libro II dell’Eneide, descrive la caduta di Troia con immagini di case in fiamme, strade colme di cadaveri, famiglie divise. È lo sguardo di Enea, che tenta invano di salvare i propri cari. Chi legge oggi non può non pensare alle fotografie di Gaza: bambini tra le macerie, padri che portano sulle spalle i figli morti, città ridotte a un cumulo di rovine.

La letteratura greca e latina diventa così il linguaggio che ci permette di nominare l’orrore senza banalizzarlo. Gaza City è la nuova Troia, non per retorica, ma perché la condizione dei civili sotto le bombe ripete lo stesso paradigma antico. Il vinto non è un nemico, ma un innocente sacrificato.

La “guerra giusta” dimenticata

I Romani tentarono di dare alla guerra un fondamento giuridico e morale. Con l’espressione bellum iustum[3] si intendeva una guerra dichiarata con regolarità, condotta per difendersi da un torto subito o per ristabilire un equilibrio violato, mai come atto di pura violenza. Per questo esistevano i riti dei fetiales: ambasciatori sacri che chiedevano un indennizzo all’avversario e, in caso di rifiuto, sancivano davanti agli dèi la giustezza del conflitto.

Questa tradizione, certo spesso piegata alle necessità politiche di Roma, mostra tuttavia un’esigenza fondamentale: che la guerra non fosse solo forza bruta, ma che fosse, invece, necessariamente rivestita da limiti e regole. È proprio ciò che manca di fronte all’assedio e alla devastazione di Gaza City.

Qui la logica del bellum iustum sembra dimenticata: la sproporzione dei mezzi, l’annientamento di interi quartieri civili, l’assenza di distinzione tra obiettivi militari e popolazione inerme contraddicono qualsiasi idea di guerra “giusta”. La tradizione romana ammoniva che la potenza non basta a legittimare la violenza; eppure, oggi assistiamo a un conflitto in cui la forza si autolegittima, cancellando il confine stesso tra giustizia e dominio.

Conclusione

Mettere in relazione le immagini di Gaza con i racconti del passato non significa confondere epoche e contesti, ma riconoscere che la guerra, in ogni tempo, ha le stesse vittime: i civili, i più deboli, chi non ha voce. Il mondo di oggi continua a oscillare tra questi due poli: la politica che giustifica la violenza in nome della sicurezza e l’umanità che piange i morti senza più patria. Gaza diventa così specchio del passato e ammonimento per il presente: un luogo che ci costringe a ricordare che la guerra è sempre tragedia.

Non è la prima volta che vediamo una città bruciare. Troia, Cartagine, Melo: le ceneri del mondo antico sono testimoni silenziose di ciò che significa assedio. Oggi è Gaza City a tremare sotto le bombe, ma la scena è la stessa di allora. Madri che piangono, bambini che non hanno più futuro, pietre che non custodiscono più case ma rovine. La guerra non inventa nulla di nuovo, ma ripete i suoi gesti come un rito antico. Se i Greci e i Romani hanno raccontato l’orrore non per celebrarlo ma per ammonire, la domanda che ci resta è semplice e terribile: perché continuiamo a riprodurlo?

Marco Alviani per Questione Civile

Bibliografia

Polibio, Storie, XXXVIII

Tucidide, Storie, V

Cicerone, De Re Publica, II

Virgilio, Eneide, II

Euripide, Troiane


[1] Polibio, Storie, XXXVIII, 21-22

[2] Tucidide, Storie, V, 85-115

[3] CiceroneDe Re Publica, II, 31

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