Poe contro Dickens: la disputa su “Barnaby Rudge”

Poe

Poe e Dickens: due concezioni diverse del romanzo

Poe e Dickens si conoscevano, si apprezzavano vicendevolmente, ed ebbero l’occasione anche di schierarsi l’uno contro l’altro in una disputa autoriale su un romanzo pubblicato dal secondo, Barnaby Rudge.

Una sfida autoriale

Nell’aprile del 1841 Edgar Allan Poe diede alle stampe The Murders in the Rue Morgue, il primo esempio di detective story nell’accezione moderna. Per una fortuita coincidenza, nel corso dello stesso 1841 il redattore del Saturday Evening Post sfidò Poe a risolvere prematuramente il mistero dietro il duplice omicidio che dà sfondo alle vicende di Barnaby Rudge, romanzo a puntate di Charles Dickens in pubblicazione. Il plot viene così smantellato e scandagliato in ogni minimo dettaglio, ciascun ingranaggio dell’intreccio acquista un senso traducibile solo complessivamente. Il fine ultimo, dunque, non è tanto la scoperta del colpevole, quanto la comprensione del senso stesso del romanzo.

Ciò che Poe si aspetta è una sorta di fair play, una convenzione di regole non scritte. Le informazioni che l’autore rilascia devono obbligatoriamente condurre alla risoluzione del mistero e all’ottenimento del sapere posto in palio. Tale è la visione sistemica del testo letterario secondo Poe: un marchingegno artigianale polito e onesto, dove nulla è fuori posto ed accidentale. Sulla base delle tracce più o meno esplicite concesse da Dickens nel corso del romanzo, Poe – e insieme a lui qualsivoglia lettore attento – è e dev’essere sempre in grado di disinnescare il testo e comprenderne le verità intime – in questo specifico caso, l’identità dell’omicida.

L’errore di Poe

Ciononostante, la logica compositiva di Poe viene tradita. Le previsioni del padre della detective story si rivelano parzialmente erronee, in quanto, pur avendo colto l’identità del colpevole, ulteriori circostanze del delitto che erano state presunte non si realizzano all’interno delle vicende. Nella fattispecie, il personaggio che Poe aveva individuato come mandante dell’omicidio, Geoffrey Haredale, si rivela alla fine del romanzo del tutto innocente. Va detto che tale ipotesi non sarebbe stata per nulla assurda, dati alcuni aspetti dell’intreccio che Poe non ha ovviamente mancato di rinvenire e ponderare. Ma è soprattutto una scena ad aver convinto Poe della colpevolezza del personaggio. Ad un certo punto Dickens riporta una visione di cui è vittima il folle protagonista Barnaby, la quale viene immediatamente interpretata dal lettore come un indizio evidente della

Poe fa, infatti, riferimento ad una scena durante la quale Barnaby farnetica senza alcun senso apparente a proposito dei panni stesi, suggerendo che essi stiano in qualche modo confabulando fra loro condividendo intenti loschi. Secondo il principio compositivo di Poe, nessun elemento del testo può essere sovrabbondante, inessenziale. Se Dickens ha inserito una sequenza narrativa del genere, essa deve obbligatoriamente conservare un utilizzo che andrà a comporre e realizzare l’idea originaria. Le parole di Barnaby, secondo Poe, si riferiscono a qualcosa di specifico. Ecco allora che Poe è sicuro di aver individuato il colpevole, a suo dire colluso con Haredale. I panni che sembrano confabulare stanno imitando i loschi progetti dei due.

Nel testo letterario nulla è casuale. Eppure, la visione di Barnaby non ha alcun peso nell’economia generale, e rimane sospesa e aliena rispetto al sistema. Haredale è innocente.

Un patto venuto meno

Ci si chiede a questo punto di chi sia la colpa. È Poe ad avere sovrinterpretato il testo costringendo le informazioni fornite ad una decodifica tendenziosa, o è stato Dickens a trarre in inganno il suo sfidante porgendogli una falsa pista o comunque un elemento fraintendibile? Poe è risoluto. Dickens ha infranto i dettami che regolano la costruzione del testo, dal momento che ha offerto al suo avversario un indizio inutile e colpevole di aver danneggiato la planimetria del romanzo con un vicolo cieco. Evidentemente Dickens ha cambiato i piani in corso d’opera, troncando un risvolto della trama che pur inizialmente aveva previsto e del quale rimangono ancora le tracce nei primi capitoli; un errore inammissibile per un artigiano della narrativa come Poe che congegna i suoi testi dall’incipit all’explicit.

Due concezioni autoriali agli antipodi

Ciò che traspare da questa vicenda è perciò un’insanabile differenza di concezioni autoriali. Poe, vero araldo del Positivismo, della razionalità scientifica, del rigore metodologico, costruiva le sue opere come fossero architetture complesse ma mai pericolanti. Ogni minimo elemento dei suoi racconti, dei suoi romanzi e delle sue poesie non poteva mai farsi trovare fuori posto, al contrario, contribuiva energicamente all’armonia del tutto. Per Poe, la scrittura era un atto di programmazione.

Dickens, invece, era quello che oggi verrebbe definito un autore “commerciale”. Bisogna liberare questo termine dalle incrostature negative con le quali si condannano oggi certe produzioni legate unicamente all’ottica del consumo. Dickens resta infatti un autore brillante, sopraffino nella tessitura dell’intreccio e abile nell’andamento prosastico. Semplicemente, vendeva. Aveva capito quali fossero gli imput narrativi del popolo vittoriano, ciò che interessava loro e ciò che serviva per mantenere il loro interesse alto e costante.

Dickens è probabilmente il maggior scrittore inglese di feuilletons, altrimenti detti “romanzi a puntate”. I suoi romanzi erano quasi sempre composti in fieri, di settimana in settimana o di mese in mese, un capitolo alla volta. Si tratta di qualcosa di estremamente simile alle modalità narrative delle serie TV contemporanee. Non a caso a Dickens si attribuisce anche l’ufficiosa invenzione del cliffhanger, l’espediente pensato per interrompere la narrazione subito dopo un colpo di scena o un qualsiasi altro momento di rilievo, perfetto per ghermire la curiosità dei lettori fino al numero successivo.

L’artigianalità di Poe contro l’industrialità di Dickens

Insomma, l’antinomia è perfettamente delineata. Da una parte abbiamo Poe, autore meticoloso che non comincia a scrivere finché non ha già adeguatamente mappato il perimetro del suo testo, che possiede sin da subito una chiara visione del futuro delle sue opere e che mai si sognerebbe di modificarle nel mentre. Dall’altra abbiamo Dickens, un autore maggiormente interessato alla vendita dei suoi prodotti – non che questo sia un male! -, che combatte settimanalmente con l’altalenante passione letteraria del popolo vittoriano, preoccupandosi di mantenere l’interesse vivo farcendo i suoi scritti con continui effetti sorpresa, cambiamenti di rotta, e così via. Artigianalità contro industrialità.

Barnaby Rudge è stato effettivamente modificato in corso d’opera, qualcosa che per Poe sarebbe stato inammissibile ma che Dickens era costretto abitualmente a fare per non perdere il suo pubblico. Se quindi Poe ha una visione del romanzo monolitica, Dickens si apre al virtuale e al potenziale.

Ma chi ha ragione fra i due, a conti fatti? Entrambi, perché questa disputa rivela un importante passaggio d’epoca. Ha ragione Poe, con la sua sempre più vertiginosa ferrea logica positivistica; ha ragione Dickens, con la sua nasce e presto trionfante logica commerciale. Semplicemente, la storia culturale cambia e con essa i paradigmi gnoseologici.

Aldo Baratta per Questione Civile

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