L’educazione emotiva è ciò che ci riconnette al sentimento. Il sentire include il soffrire: ma spesso è nel dolore che nasce il risveglio
L’educazione emotiva è il grande tabù della modernità. Essa non viene negata, ma elusa. Non viene rifiutata, ma banalizzata. In un mondo che scorre senza sostare, sentire è diventato pericoloso, perché fa produrre di meno: non si ha più tempo per le emozioni. Così nasce una nuova creatura, mostruosa ma più reale che mai: il vampiro emotivo. Questi, tuttavia, non si nutre più dell’essenza degli altri, ma della loro superficie: posture, like, maschere. Non cerca più il sangue, ma s’accontenta dello scadente vino dell’approvazione sociale, mentre la sua natura continua ad impedirgli il riflesso nello specchio. Nell’epoca dove ogni cosa è a portata di mano, la mediocrità, la superficialità, non sono più sfortune, sono scelte comode, consapevoli: siamo perennemente in fuga da quell’oscura soffitta nella quale giace il nostro ritratto.
La verità è che, ancor più del fallimento, temiamo il confronto con noi stessi.
Standardizzati ma vuoti: educazione emotiva e responsabilità della scuola
L’educazione emotiva, oggi, è il grande assente sui banchi di scuola. E non perché non se ne parli, ma perché nessuno la prende davvero sul serio. Non solo le materie umanistiche sono estremamente depotenziate rispetto a quelle tecnico-scientifiche, ma è lo stesso sistema scolastico ad essere una barca forata: si preferisce un apprendimento efficiente, misurabile, veloce. Ma l’anima non si misura, né si corregge con una verifica; come la sua crescita non può essere ridotta all’interno di un programma valutativo e temporale.
E così cresciamo sapendo tanto, tranne come abitare noi stessi. Oggi, la scuola è più che mai tale regno di mimetizzazione: un luogo dove la differenza viene eliminata, dove ogni individuo è ridotto a una variabile in un calcolo di conformità sociale. Il sistema educativo si fonda sul principio che il valore di una persona si possa misurare tramite numeri, statistiche, voti: spesso un circolo vizioso che promuove l’omologazione e non l’emergere della singolarità individuale.
Ivan Illich e la scuola come strumento anti-conviviale
Già nella seconda metà del secolo scorso, Ivan Illich, filosofo e pedagogo austriaco, denunciava un’educazione che, anziché rendere più consapevoli, rendeva sempre più addomesticati. La scuola, diceva, è una fabbrica atta a standardizzare il pensiero, quando invece dovrebbe essere un luogo conviviale, dove l’individuo cresce ed apprende lo spirito critico. Sia chiaro: Illich non era contro l’educazione, non era avverso all’istruzione, ma lo era nei confronti d’un modello educativo omologato, industriale, il quale finiva inevitabilmente per soffocare il viaggio interiore dell’individuo, alienandolo, impedendogli di fare spazio alla propria autenticità.
Il sistema valutativo, fatto di compiti, esami, graduatorie, non premia dunque la comprensione profonda ma la capacità di adattarsi, di ripetere, di apparire conformi ad un sistema che rifiuta la complessità dell’individuo. La creatività, quel focolaio di scintille in grado di dare valore al nostro essere, è soppressa in favore di un pensiero coerente, standardizzato: l’inizio della corsa senza fine verso l’utile produttivo.
Sistema valutativo come competizione, non come reale verifica d’apprendimento
Le votazioni, in effetti, tendono spesso a divenire uno sterile veicolo di competizione, poiché orientate maggiormente alla conformazione intellettuale che alla reale verifica di comprensione dei concetti. Questo fenomeno è particolarmente evidente – paradossalmente – proprio nell’insegnamento delle discipline tecnico-scientifiche. Un esempio tristemente noto è quello della matematica, soprattutto nella scuola secondaria di secondo grado. Non è un segreto, infatti, che (specie nei primi anni) sia possibile provvedere ai compiti e ai test trattando l’algebra e l’analisi matematica quali meri esercizi meccanici privi di significato intrinseco: dei “noiosi giochetti”, insomma.
Ma come possiamo biasimare lo studente, se è proprio così che l’insegnamento viene impartito? Anziché rivelare la bellezza creativa che si cela dietro il linguaggio matematico, dunque, molti docenti evitano volentieri di proporre l’approccio concettuale, visivo, astratto. Preferiscono insistere su formalismi e automatismi che, in realtà, dovrebbero avere un ruolo solamente secondario. Così facendo, si perde definitivamente l’occasione di appassionare alla materia, di mostrare veramente “cosa sta dietro” a concetti fondamentali come la derivata o l’integrale, ad esempio, riducendo lo studio di questa affascinante disciplina ad un mero esercizio monotono, noioso e privo di reale comprensione.
Creatività vs prestazione: la cultura come atto di resistenza all’omologazione
La creatività, dunque, non è insegnata se non nella misura in cui rispetta le regole prestabilite del sistema, le quali richiedono adattamento e conformismo ad un preciso standard. Spesso la scuola non solo non insegna a pensare con profondità, ma promuove una superficialità pericolosa, dove il valore di una persona si riduce ad una prestazione. Dunque, ecco l’emersione di uno tra i maggiori problemi dell’apparato educativo moderno: esso non è progettato per aiutarci a diventare ciò che siamo, ma ciò che socialmente ci è richiesto di essere. Nietzsche l’avrebbe indicato quale ennesimo trionfo della mediocrità: non un cammino di crescita personale, ma una prigione della ripetizione, in cui ogni atto di pensiero autentico viene annientato da un sistema che premia l’adattamento e il conformismo. Gli studenti, infatti, vengono educati alle risposte rapide, efficienti, a risolvere problemi: mai a essere individui capaci di risolvere sé stessi.
Ciò detto, tuttavia, il cardine della questione non dovrebbe consistere solamente nel riformare i programmi scolastici, aggiornare le metodologie didattiche, ma nel ripensare radicalmente la missione della scuola. Serve un’educazione che non si limiti a istruire, ma che formi, che colga la complessità dell’essere umano e ne coltivi l’unicità. Una scuola che non insegni a risolvere sterili giochetti, ma che spinga a porsi domande, che accenda la passione, che incoraggi a navigare dentro le proprie emozioni, ad abitare la propria interiorità. In un mondo che corre verso l’efficienza e l’omologazione, l’educazione, specie quella emotiva, dovrebbe essere propriamente il luogo della resistenza: il laboratorio dove impariamo non cosa diventare per essere accettati, ma come essere pienamente noi stessi. Fino a quando questo cambiamento non sarà preso sul serio, continueremo a diplomare macchine efficienti nel produrre, ma tragicamente impreparate a vivere.
La società della superficie: il grande sabotaggio del sentire
Ed ecco l’epoca della superficie, nella quale non è l’autenticità a governare i rapporti umani, ma la rapidità con cui un’impressione riesce a colonizzare lo sguardo. Ogni contenuto, ogni emozione, ogni pensiero deve piegarsi ad una soglia di attenzione ormai ridotta a pochi secondi, come testimoniano gli stessi architetti della comunicazione digitale. In questo orizzonte effimero, la profondità non è solo evitata: è attivamente sabotata.
Chi invita alla lentezza del pensiero, all’inquietudine del sentire, viene silenziato non con la censura, ma con l’indifferenza – la più sofisticata delle forme di esclusione. I social network, lungi dall’essere meri strumenti, sono ormai ambienti psichici che plasmano identità e desideri. Non si tratta solo di esposizione: è una mutazione antropologica vera e propria. L’urgenza di reagire rapidamente, di mostrarsi, di essere “presenti”, ha eroso la possibilità stessa della riflessione. Non si cercano più significati, ma si consumano impressioni. La complessità è divenuta un difetto, la profondità un peso, il dubbio un lusso che il ritmo della connessione continua non può più permettersi.
L’educazione emotiva come anacronismo, oggi si ama di fretta
In questa nuova condizione, l’educazione emotiva diventa un orpello, un retaggio malinconico di epoche in cui si aveva ancora il tempo di soffrire senza doversi giustificare. Oggi si soffre di fretta, si ama di fretta, si dimentica ancora più in fretta. La sofferenza interiore non è più un passaggio di trasformazione, ma un contenuto da esibire; la felicità, non più una conquista, ma un’immagine da replicare.
Non viviamo più le emozioni: le consumiamo, come tutto il resto. Così, in questa dimensione, non crescono più individui, ma personaggi: avatar curati che ricalcano modelli prefabbricati. La vita interiore diventa storytelling, il dolore autentico esibizione, l’identità brand. Il vampiro emotivo, allora, non succhia più la linfa vitale, s’accontenta di simulacri. Egli si abbevera di conferme rapide, di applausi istantanei, di sguardi distratti. E nello specchio della modernità non trova solo la propria assenza: trova il vuoto stesso che lo ha generato.
Restaurare l’emotività: l’educazione emotiva come unica salvezza
Oggi le nuove generazioni crescono spesso senza sviluppare un vero linguaggio emotivo: conoscono la reazione, ma non la riflessione; conoscono il desiderio, ma ignorano la responsabilità che deriva dal perseguirlo. Così, quel disagio, quel nichilismo, si tramuta in isolamento digitale, consumo compulsivo di contenuti superficiali, dipendenza dai riconoscimenti alteri ed effimeri. Le emozioni, incapaci di essere nominate, riconosciute, si trasformano in esplosioni improvvise: aggressività verbale, bullismo sociale, sessualità narcisistica priva di sentimento; crescono le dinamiche di maschilismo, dove il rifiuto viene vissuto come un affronto da vendicare, non come un dolore da attraversare. Senza strumenti interiori, dunque, il contatto con l’altro viene percepito come una minaccia, non come un incontro.
Ma non solo: nel mondo adulto, il quadro si fa ancora più desolante. Chi non ha mai imparato a leggere il proprio tumulto emotivo, da grande tenderà ad anestetizzarlo, a nasconderlo. Così, anziché coltivare relazioni, le si consuma; anziché costruire un’identità autentica, la si riduce al successo professionale. Ci si trincera dietro un rassicurante “così fan tutti” per mascherare la propria incapacità di introspezione. Il dolore, invece di essere attraversato, viene negato, sfogato impulsivamente oppure soffocato sotto il rumore dell’efficienza e dell’apparire. Si sopravvive, sì, ma si sopravvive come gusci vuoti, incapaci di trasformare tale sofferenza in crescita.
Dopo aver smarrito la scuola come fucina di autenticità e trasformato i social in vetrine per una vita senza spessore, resta da chiederci: come si può ancora coltivare l’anima in un mondo che rifiuta ogni profondità? La risposta non sta nell’aggiungere nuove tecniche, né nel moltiplicare le competenze. Sta nel recuperare un’educazione dimenticata: quella emotiva. Non basta insegnare a funzionare nel mondo; bisogna insegnare a stare nel mondo.
Cultura umanistica come urgenza fondamentale
Ed è qui che la cultura, la letteratura, la filosofia, l’arte si rivelano non più un lusso per pochi, ma un’urgenza per tutti. Umberto Galimberti è noto per insistere su questo punto: la letteratura è la vera scuola delle emozioni. Chi ha abitato il dubbio di Dostoevskij o la solitudine di Kafka, chi ha sofferto con Werther o ha camminato con Zarathustra, non ha semplicemente letto storie: ha imparato a riconoscere, a discernere, a nominare il tumulto dentro di sé. La letteratura non edifica nozioni solamente, ma plasma interiorità, allenando l’anima a sostenere l’urto della vita.
Purtroppo, nel 2022, solo il 39,3% della popolazione italiana dichiara di aver letto circa un libro nell’ultimo anno per motivi non strettamente scolastici o professionali – registrando una diminuzione rispetto al 40,8% del 2021. Inoltre, i generi più letti risultano spesso essere quelli più commerciali, con i classici e le opere esistenzialiste che rimangono trascurate dalla maggior parte dei lettori. In tale contesto, la lettura perde la sua capacità di educare e formare profondità emotiva, trasformandosi al massimo in un’attività di consumo rapido ed estetico.
Educazione emotiva: il segreto per una vita piena
Educare alle emozioni significa dunque insegnare a confrontarsi con il disagio, a dare nome all’angoscia, a vivere il sentimento non come retaggio ma come valore personale. Significa avere il coraggio e gli strumenti per tracciare le proprie mappe interiori in un mondo che corre senza meta, sterile ed avulso alla profondità. Se vogliamo vivere una vita piena e significativa, dobbiamo ripartire proprio da qui: restituire peso, spessore e nobiltà all’arte del sentire.
Perché un’anima che non sa sentire non solo è destinata all’infelicità, ma è prigioniera della banalità, incatenata a tale corsa frenetica verso quell’utile produttivo che annienta ogni passione. Una vita che, con il tempo, si consumerà in una vecchiaia nella quale le uniche cose che cresceranno – di pari passo al denaro accumulato – saranno i rimpianti.
Giovanni Davi per Questione Civile
Bibliografia:
- Ivan Illich, Deschooling Society (1971).
- Umberto Galimberti, Psiche e Techne, l’uomo nell’età della tecnica (2000).
Sitografia:
- ISTAT, La lettura in Italia, Rapporto 2022.
Buongiorno Giovanni , io sono una sessantenne ed il tuo articolo mi ha impressionato per quanto hai detto .
Hai fatto una descrizione veritiera di quello che ormai è il degrado dell educazione nel nostro paese .
Non si tiene più conto delle emozioni , della lentezza come fonte di riflessione , della manualità che ancora pochi possiedono e che è anche espressione di arte …. come dici tu siamo tutti omologati …. e questo è terribilmente pericoloso per la società …. e già ne stiamo vedendo le conseguenze .
bellissimo!!! grazie.
Ciao Giova, mi rendo conto di essere un po’ di parte ma non importa.. sei stato bravissimo! profondo ed esaustivo nell’ argomentare un tema così attuale.
Madre orgogliosa 😌😍