Paideia: educazione tra Grecia antica e modernità

Paideia

L’arte della Paideia nell’antica Grecia

“Educare la mente senza educare il cuore, non è affatto educare” [Aristotele]

Paideia (παιδεία): ecco il nome della più difficile e delicata tra le arti, una parola che sottintende educazione, cultura, formazione e civiltà, plasmare l’intero individuo come si plasma la più nobile delle statue.

Ebbene, qualsiasi società della storia si è misurata con una domanda fondamentale: come educare i giovani? In questo, la Grecia antica resta tutt’ora uno dei più interessanti orizzonti di confronto. Non perché sia un modello da replicare, ma perché lì, per la prima volta, l’educazione fu pensata come arte suprema della vita, un esercizio per forgiare non sudditi, non tecnici, non semplici ingranaggi, ma uomini completi, capaci di reggere il peso dell’esistenza e di trasformarlo in bellezza e potere – tanto da fondare l’intera civiltà occidentale.

Educazione aristocratica nella Grecia antica

Il giovane aristocratico non apparteneva a sé stesso. Il suo destino era già scritto nei miti che ascoltava, nelle genealogie eroiche della sua stirpe, nelle parole dei poemi omerici che gli venivano trasmessi come codice di vita. Crescere significava confrontarsi con Achille, con Odisseo, con Ettore: non figure di carta, ma esempi viventi da incarnare. Già il ragazzo imparava che l’esistenza non è neutra, ma lotta continua, “agon”.

Siamo a cavallo tra V e IV secolo a.C., e Atene emerge come vera fucina della paideia. I giovani aristocratici non potevano limitarsi a maneggiare la spada, ma dovevano dominare anche qualcosa di ben più affilato: la parola. Il corpo veniva temprato nella palestra e nel ginnasio, come a Cynosarges o nelle palestre della Pritania, ma l’agorà richiedeva qualcosa di più: retori capaci di guidare il giudizio pubblico, filosofi pronti a sfidare la ragione comune, cittadini in grado di sorreggere il destino della Polis. Socrate, il padre della filosofia, tra il 470 e il 399 a.C., fu il maggior esempio dell’importanza che rivestiva l’arte di educare nella Grecia antica: egli interrogava i giovani, accendeva il loro “demone”, li spingeva a misurarsi con la verità, a confrontare l’anima con sé stessa, trasformando l’apprendimento in esperienza esistenziale, non mero tecnicismo.

Diversa, quasi opposta, era la via spartana. Qui l’educazione aristocratica coincideva con l’annullamento dell’individuo. L’agoghé sottraeva i giovani alle famiglie per consegnarli allo Stato: privazioni, addestramenti, obbedienza assoluta. L’areté spartana era l’obbedienza, il sacrificio, la disponibilità a morire per la polis. Se Atene insegnava l’arte del dialogo, Sparta insegnava il sacrificio per la collettività.

In entrambe, però, l’educazione era destino: l’uomo non nasce “uomo”, si costruisce attraverso l’educazione.

La Paideia classica

La parola paideia, dunque, racchiude l’essenza stessa della civiltà greca. Non mera istruzione, non accumulo di nozioni, ma tensione ad una forma: l’uomo doveva essere scolpito come marmo, fino a rivelare la sua immagine interiore.

Platone, nel mito della caverna, descrisse egregiamente questo processo: l’educazione è liberazione dalla catena delle ombre, ascesa dolorosa verso la luce dell’Idea. Non un viaggio dolce, ma un atto violento: l’anima trascinata fuori dall’ignoranza, costretta a guardare ciò che non vorrebbe. “La più grande vittoria è quella su sé stessi”: questa era la grande pedagogia platonica.

Aristotele, meno metafisico, parlava del telos, del fine proprio dell’uomo. Ogni essere vivente tende alla sua realizzazione; per l’uomo, quella realizzazione è il pensiero, la vita contemplativa e al tempo stesso politica. Educare significava allora condurre ciascuno a diventare ciò che la sua natura più alta gli imponeva: zōon politikon, “animale politico”, e zōon logon echon, “animale che possiede il logos”, la parola.

Anche i Sofisti, seppur disprezzati da Platone, fecero parte di questa grande impresa educativa. Protagora, Gorgia, Prodico, insegnavano non a contemplare l’Idea, ma a muoversi tra gli uomini, a dominare il linguaggio, a persuadere. Se Platone cercava la verità, loro cercavano l’utile. Ma non è forse questo lo scontro eterno nell’educazione? Verità o utilità? Sapienza o potere? Ma forse proprio in questo conflitto, si racchiude l’essenza stessa della paideia.

Educazione e modernità

E se da quei tempi antichi, volgiamo lo sguardo all’oggi, ecco che l’educazione appare irriconoscibile. Anzitutto, non più privilegio di pochi, ma diritto universale. Non più aristocrazia di sangue, ma democrazia delle masse. Il bambino moderno entra a scuola non per eredità familiare, ma perché la legge lo impone. Un trionfo del diritto, certo… Eppure, dietro questa universalità, si nasconde forse una perdita: l’educazione diviene meno “opera d’arte” e più “catena di montaggio”.

Nietzsche, nelle sue “Considerazioni inattuali”, lo vide con chiarezza: le scuole moderne formano specialisti, “sanno tutto, ma di una sola cosa”, ingranaggi, uomini mediocri, non spiriti forti. Dove sono oggi gli spiriti aristocratici, i giovani capaci di plasmare valori, di guidare, di creare? Forse si sono persi, soffocati da un’educazione burocratica che misura il successo solamente in voti e stadi, tralasciando la crescita interiore.

Il problema dell’uguaglianza educativa

Ecco l’enigma: si può oggi ritrovare l’anima della paideia, pur vivendo in un sistema democratico ed egualitario? Gli antichi miravano a formare uomini completi, vero: ma escludevano donne, schiavi e poveri. Noi invece includiamo tutti, ma spesso formiamo individui dimezzati.

Ebbene, Platone avrebbe temuto la nostra degenerazione democratica (vedasi la Repubblica): senza il Governo “di pochi eletti”, saggi e forti, ma anche pronti al sacrificio per il bene comune, la città rischia di scivolare nell’anarchia, e da lì nella tirannide. Nietzsche, in altro tempo, disse lo stesso: una massa senza spiriti forti e solidi è terreno fertile per i dominatori. Ed ecco, forse, una massima: non è questione di educare tutti, ma di quanto questo “tutti” consenta di educare in profondità.

Paideia del passato, aiuto per il presente

Essendo realisti, ovviamente si deve riconoscere che si stanno analizzando società profondamente diverse: come detto, la Grecia antica era una polis ristretta, aristocratica, dove solo pochi partecipavano alla formazione politica e culturale; la nostra società invece è, appunto, democratica, globale ed egualitaria (per fortuna o sfortuna, questo è altro tema). Eppure, il confronto non è vano: osservare come la grande civiltà greca educava i propri giovani ci mostra cosa significhi davvero formare spiriti critici e individui completi, e su questo, la modernità potrebbe esserne più che mai ispirata.

Si dovrebbe imparare che educare non significa solo accumulare nozioni o imparare mestieri, educare significa anzitutto mettere il giovane di fronte alla vita stessa, alle sue bellezze ma soprattutto alle sue contraddizioni, alla sua tragicità. Gli Ateniesi lo facevano con i dibattiti pubblici nell’agorà, le assemblee e le scuole di retorica: esperienze concrete che forgiavano giudizio, coraggio e autonomia.

Oggi si potrebbe emulare ancor più tali pratiche, incoraggiando i dibattiti nelle scuole, tra professori ed alunni, ma anche in forum simulati, giochi di ruolo civici o esercizi di decisione pubblica, dove ogni scelta significa conseguenze reali, e dunque obbliga a misurarsi con responsabilità e conflitto. E perché no? La tragedia, da Sofocle a Euripide, potrebbe farsi più che mai palestra per l’anima, incoraggiare il teatro nelle scuole: far interpretare ruoli complessi, sfaccettati, insegnare a comprendere punti di vista diversi, confrontarsi con dilemmi morali e provare sulla propria pelle cosa significa agire secondo diversi principi e valori.  

E non solo mente, ma anche corpo

Purtroppo, oggi la civiltà si presenta profondamente cartesiana, visceralmente allenata a separare “anima e corpo”, mente e materia, come se il pensiero fosse altrove rispetto alla sostanza che lo permette. In realtà, il corpo è la mente: curare il corpo significa curare la mente, migliorare concentrazione, autocontrollo e resilienza.

Come nella Grecia antica, dunque, dovremmo incoraggiare ulteriormente l’attività fisica, e non solo come semplice esercizio di stacco od intrattenimento, ma come potente strumento per rinforzare le mente stessa – che non è altro che corpo, e da questo dipende in ogni sua parte. In quest’ottica, pertanto, ogni movimento, ogni ginnastica, diventa una vera e propria ginnastica dello spirito: il corpo che sostiene la lucidità della mente.

La vera Paideia

La vera paideia, dunque, non significa riempire teste, né forgiare cittadini obbedienti: significa accendere spiriti, plasmare uomini e donne capaci di misurarsi con la vita, in tutta la sua cruda bellezza. La paideia greca, dunque, ci sia da esempio nel ricordarci che corpo e mente sono un unico strumento, che azione e riflessione, disciplina e giudizio, si sostengono a vicenda.

In questa società moderna, che misura tutto con voti e diplomi, che ci forma come ingranaggi ultra-specializzati, rispolverare questa visione è pertanto atto di massima arte: trasformare la scuola in laboratorio di vita, dove ogni dibattito, ogni gesto, ogni sforzo educativo diventa palestra dello spirito.

Solo così la società futura potrà essere, non solo quell’insieme di ingranaggi ultra-specializzati ma privi di comunicazione, ma una società fatta di creatori, di pensatori audaci, uomini e donne che osano, che vivono a fondo, pronti a forgiare, con responsabilità e grandezza, il futuro di domani.

Giovanni Davi per Questione Civile

Bibliografia:

  • Alessandro Stavru – A colloquio con Socrate
  • Greek and Roman Education, A Sourcebook – Mark Joyal, J.C Yardley, Iain McDougall
  • Platone – La Repubblica, Gorgia, Simposio
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