Libero arbitrio: non esiste, ma fa comodo crederlo

libero arbitrio

Ha senso pensare al libero arbitrio?

Credi davvero nel libero arbitrio? Ti sei mai chiesto perché hai scelto proprio quel posto sul treno, quella canzone in cuffia, quella tazza a colazione? Ogni scelta che sembra libera nasce in realtà da una rete complessa di cause: fisiche, genetiche, psicologiche, culturali, sociali, storiche.

La stessa fisica classica lo suggerisce: in un sistema chiuso, tutto è potenzialmente determinabile, compresa l’attività del cervello, che è un sistema fisico. Allora, se ogni pensiero è effetto di leggi naturali, dove si nasconde davvero la libertà?

Libero arbitrio nella filosofia antica

Il dilemma del libero arbitrio affonda le radici nel cuore stesso della filosofia. Per i pensatori presocratici come Democrito e Leucippo, l’universo era una macchina perfetta: tutto accadeva per necessità, ogni movimento era il risultato inevitabile dell’urto tra atomi. L’essere umano, in questa prospettiva, era parte del meccanismo, non eccezione. Con Aristotele, invece, emerge una visione più sfumata: egli crede che l’azione umana sia sì causata, ma orientata verso un fine (telos). Suggerisce così che si possa agire secondo scopi scelti razionalmente, pur restando entro i vincoli della fisica e della logica.

Gli Stoici, d’altro canto, da Zenone a Epitteto, radicalizzano il determinismo: il mondo è governato dal logos, una razionalità cosmica. Tuttavia, l’essere umano conserva una forma di libertà interiore: la capacità di aderire volontariamente al destino. È la libertà del saggio, che accetta ciò che accade e lo fa proprio, liberandosi dalla sofferenza dell’illusione. Anche in India il concetto di karma introduce un’idea simile: le azioni non sono mai isolate, ma frutti di catene causali, in tal caso morali.

Infine, anche nel pensiero cristiano, la tensione tra libero arbitrio e provvidenza è sempre stata centrale. Sant’Agostino e Tommaso d’Aquino tentano infatti di conciliare la prescienza divina con il libero arbitrio umano, ma senza mai sciogliere del tutto il paradosso.

Ebbene già da questi mondi antichi emerge dunque un primo tassello: il libero arbitrio forse non è totale.

Scienze umane e modernità: l’illusione dell’IO che sceglie

Con l’età moderna, tuttavia, la fiducia nell’individuo come soggetto autonomo si incrina ulteriormente. David Hume è da annoverarsi tra i pionieri nel minare le fondamenta dell’IO: per lui, non esiste un’identità continua, ma solo una successione di percezioni, ricordi e sensazioni. In altre parole, rinnegava l’IO come sostanza unitaria e permanente.

“Non riesco mai a cogliere me stesso senza una percezione, e non riesco mai a osservare altro che una percezione” [David Hume]

Comunque, già Baruch Spinoza, nel Seicento, sosteneva una visione deterministica dell’essere umano, in cui l’io è parte di una natura governata da leggi necessarie, e la libertà consiste nella conoscenza delle cause che determinano il nostro agire. Friedrich Nietzsche, d’altro canto, mostra come il soggetto univoco e libero sia una costruzione utile alla religione e alla società, la morale degli schiavi. Dietro ogni scelta non vi è infatti un soggetto autonomo e unitario, ma un insieme di forze, impulsi e tensioni interiori in conflitto. Per lui, ciò che realmente esiste sono prospettive, interpretazioni, non verità assolute, né responsabilità morali oggettive.

Con Freud, poi, questa perdita di centralità diventa clinica: l’inconscio – ignoto, potente e non razionale – orienta il nostro agire ben più della coscienza. Le “decisioni” vengono dall’interno, ma da un interno che non controlliamo. Michel Foucault fa eco a questa decostruzione: l’individuo moderno è formato da istituzioni, linguaggi, pratiche di disciplina, non autodeterminato.

Pierre Bourdieu raffina questa intuizione con il concetto di habitus: schemi interiorizzati di percezione e azione derivanti dal contesto sociale. Le nostre preferenze – perfino il gusto musicale o la postura – sono espressione del nostro capitale culturale. Anche l’antropologia culturale, da Marcel Mauss a Clifford Geertz, mostra come l’idea di un individuo autonomo sia una costruzione storica e locale, non un dato universale.

Libero arbitrio e fisica classica

Immaginiamo due particelle all’interno di una scatola chiusa. Se conoscessimo con precisione assoluta la loro posizione e quantità di moto (massa per velocità), secondo la meccanica classica saremmo in grado di prevedere esattamente il loro comportamento, applicando le leggi di Newton. Non una stima approssimativa, ma una previsione deterministica: potremmo sapere con anticipo dove si troveranno, come si muoveranno e come interagiranno tra loro. In altre parole, prevedere il loro futuro.

Ora, allarghiamo il sistema: consideriamo miliardi di particelle organizzate in molecole, cellule, neuroni, sinapsi. Un cervello umano insomma. Anche qui, ogni azione – come alzare un dito o pronunciare una parola – ha origine in processi neurobiologici che, in linea di principio, seguono leggi prettamente fisiche. Ogni impulso elettrico di un assone, ogni rilascio di neurotrasmettitori a livello sinaptico, ogni potenziale d’azione, è il risultato di una chimico-fisica assolutamente deterministica. O forse probabilistica (come vedremo), ma comunque priva di una componente soggettiva autonoma.

Il famoso esperimento di Benjamin Libet, condotto negli anni ’80, ha mostrato che l’attività cerebrale associata a una decisione motoria (come muovere un dito) si attiva qualche centinaio di millisecondi prima che il soggetto ne abbia consapevolezza. In altre parole, le azioni si preparano nel cervello prima della stessa intenzione. Questa attività neurale anticipatoria non compare spontaneamente, ma è essa stessa il prodotto di condizioni neurofisiologiche, esperienze pregresse, fattori genetici, stati emotivi e ambientali.

Siamo dunque sistemi estremamente complessi, ma non esenti dalle leggi di natura. Ebbene, l’intreccio delle molteplici cause che determinano il nostro comportamento – un fenomeno noto come concausalità – lascia poco spazio al nostro caro libero arbitrio. Pensiamo di scegliere, ma in realtà ogni nostra “scelta” emerge da una rete causale che ci precede e ci struttura.

Ma la fisica quantistica non è anti-determinista?

All’inizio del XX secolo, dunque, si pensava che conoscendo la posizione e il movimento di ogni particella di un sistema, si potesse prevederne ogni sviluppo. Ma con la nascita della meccanica quantistica, grazie a scienziati come Planck, Einstein, Bohr e Heisenberg, la realtà apparve molto più incerta.

Nel 1927, Heisenberg scoprì che non è possibile sapere con precisione allo stesso tempo dove si trova una particella e quanto velocemente si muove. Questo non è un problema degli strumenti, ma una caratteristica della natura stessa, che funziona “per probabilità” e non “per certezza”. In breve, la meccanica quantistica ci suggerirebbe che alcuni eventi esistono come possibilità finché non vengono osservati o misurati, ergo: non sarebbero a prescindere determinati. Questa idea, chiamata interpretazione di Copenaghen, fu accettata da molti, ma non da tutti. Einstein, per esempio, non era d’accordo con l’idea che la natura concepisse eventi casuali. Infatti, diceva «Dio non gioca a dadi», convinto che esistessero leggi ancora sconosciute che potessero salvare il determinismo.

In ogni caso, anche se esistessero eventi quantistici casuali e non “predeterminati”, potrebbe salvarsi la nostra libertà di scelta?

Se in natura accadono eventi casuali, significa che sono libero?

Probabilmente no. Questa è la risposta corta. Quella lunga comporta qualche spiegazione ulteriore.

Infatti, anche ammesso che a livello quantistico possano esistere davvero eventi casuali, questo non implica in alcun modo che siamo liberi di fare le nostre scelte. Una scelta libera richiederebbe, infatti, un agente consapevole che prenda decisioni autonome, un “pilota” nella nostra testa, insomma, non semplicemente un processo casuale.

Banalizzando molto, se “una particella nel cervello si comporta in modo imprevedibile”, questo introduce incertezza, non volontà. Anche se un evento è casuale, non significa che sia frutto di una scelta consapevole. Ad esempio: nell’immaginario comune il lancio di un dado è un evento casuale.

Ma se lanci un dado, il numero che esce non dipende da te: è il risultato, appunto, del caso. Allo stesso modo, se le nostre azioni fossero condizionate dalle dinamiche quantistiche, questo non implicherebbe comunque alcuna decisione libera. La vera libertà, infatti, richiederebbe intenzione, non semplice “imprevedibilità”.

Libero arbitrio: un prodotto evolutivo?

Ciononostante, la sensazione di essere liberi, anche se apparente, avrebbe comunque una funzione ben precisa. Potrebbe essere il risultato di un adattamento evolutivo: un meccanismo che si sarebbe conservato poiché utile alla sopravvivenza. Il cervello umano si sarebbe evoluto dando la capacità di attribuire significato, intenzione e controllo alle proprie azioni. In tale ipotesi, la sensazione di soggettività e azione libera sul mondo sarebbero dunque meri adattamenti evolutivi, interamente fittizi.

Ad esempio, secondo alcuni interessanti studi del neuroscienziato portoghese Antonio Damasio, sembrerebbe che le emozioni influenzino le nostre decisioni attraverso i cosiddetti “marcatori somatici”. Essi sono segnali del corpo, come battito accelerato o tensione muscolare, che ci guidano alla risposta più conveniente, ancora prima di pensarci razionalmente. La mente non deciderebbe davvero, dunque, ma si limiterebbe a prendere atto di decisioni già influenzate da questi segnali e, successivamente, a costruirne una spiegazione coerente.

Inoltre, dal punto di vista evolutivo, credere di avere un “IO” che scelga liberamente ha molti vantaggi. Aiuterebbe, infatti, la cooperazione, la motivazione, rafforzerebbe il senso di responsabilità e permetterebbe di organizzarsi meglio in gruppo.

Molti animali, in effetti, non hanno avuto bisogno di sviluppare tale sensazione di “IO” univoco per sopravvivere. La libertà, l’univocità che percepiamo, la coscienza stessa, dunque, potrebbero non essere reali quanto ci appaiono, ma semplici adattamenti evolutivi.

Libero arbitrio: un’illusione forse, ma necessaria

Ebbene, anche se il libero arbitrio pare crollare sotto il peso della filosofia, della biologia e della fisica, la nostra mente continua a crederci. È un’illusione strutturale, non un errore. Siamo fatti per attribuire intenzione, per pensare in termini di causa e responsabilità personale. Credere in un “IO” libero ci ha permesso di cooperare, costruire cultura, società, linguaggio.

Certo, il nostro cervello semplifica: non può elaborare in ogni istante la complessità delle determinazioni che ci attraversano — fisiche, genetiche, neurobiologiche, culturali che siano. Così, fabbrica una narrazione, un centro fittizio di controllo: il soggetto. Ciononostante, questo, seppur probabilmente fittizio, non è privo di realtà. Dentro l’illusione dell’agire, infatti, c’è qualcosa che ci appartiene profondamente: la capacità di sentire. Se la volontà è costruita, le sensazioni permangono. Piacere, dolore, stupore, malinconia, meraviglia… Queste sensazioni ci attraversano continuamente, e poco importa se non ne siamo artefici, le sentiamo.

Così, anche se probabilmente non siamo padroni della nostra esistenza, siamo presenti in essa. E questa terribile e meravigliosa sensazione, questo essere senzienti, per quanto determinata, non è vuota: è il luogo in cui l’umano si compie. Non nella libertà, ma nella sensibilità. Non nella scelta, ma nella presenza con la quale abitiamo ciò che ci accade.

L’arte del sentire, non dello scegliere

Accettare che non siamo liberi non è dunque facile, ma non significa per forza cedere al nichilismo. Significa invece vivere più a fondo. Spogliati dall’illusione dell’autonomia, infatti, possiamo riscoprire un altro modo di stare al mondo: non come artefici, ma come testimoni consapevoli. La responsabilità non sparisce: cambia volto. Non è più colpa, è comprensione. Non è giudizio, è contesto.

In questo sguardo più ampio, la cultura, l’arte, la bellezza assumono un ruolo centrale. Non servono a distrarci dalla verità, ma a renderla abitabile. Un quadro, una poesia, una melodia, non ci rendono liberi, ma ci fanno sentire vivi. Perché l’arte sussurra proprio in quel punto cieco in cui il determinismo non sa parlare: la commozione, la vertigine, la grazia.

Nella bellezza non c’è una via d’uscita, ma un attraversamento. Non possiamo interrompere il corso delle cause, e forse non possiamo nemmeno scegliere autonomamente, ma possiamo vivere in pienezza. Anche se irrimediabilmente attraversati dalla natura, infatti, proviamo stupore e meraviglia, oltre che sofferenza. In questo, forse, c’è qualcosa di più profondo della libertà: c’è la presenza.

Così, non è nell’illusione del controllo che possiamo salvarci, ma nell’intensità con cui sappiamo sentire. E allora, vale la pena abitare lo sguardo che disarma, perdersi in un libro, un quadro, una musica, anche se non li abbiamo scelti. Non siamo padroni di nulla, ma possiamo essere nudi davanti al tutto.

E in quella nudità, fragile e irriducibile, si nasconde tutta la nostra verità più umana.

“Rimanetemi fedeli alla terra, fratelli, con la potenza della vostra virtù! […] Così io vi prego e vi scongiuro.”

[F.W. Nietzsche]

Giovanni Davi per Questione Civile

Bibliografia e sitografia:

  • D.J. Griffiths, D.F. Schroeter – Introduzione alla meccanica quantistica (2023)
  • Amedeo Balbi – Inseguendo un raggio di luce (2021)
  • F.W. Nietzsche – Così parlò Zarathustra, La Gaia Scienza, Al di là del Bene e del Male (1883/’85, ‘82, ’86)
  • David Hume – Trattato sulla natura umana (A Treatise of Human Nature), (1739–1740)
  • Antonio Damasio –  L’errore di Cartesio: emozione, ragione e cervello umano (1994)
  • Amedeo Balbi – “Le nostre azioni sono predeterminate?” YouTube video (2022)
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