L’educazione europea e le politiche comuni adottate
L’educazione è da sempre uno dei settori in cui gli Stati mantengono una forte autonomia. Eppure, da almeno vent’anni, l’Unione Europea lavora per promuovere strategie comuni, obiettivi condivisi e cooperazione internazionale tra i sistemi scolastici, pur rispettando la sovranità educativa dei singoli Stati membri.
Dal punto di vista istituzionale, si applicano teorie di governance multilivello. Stati e UE collaborano in policy networks e tavoli di concertazione, secondo il modello della governance comunitaria, basato su negoziazione orizzontale e reti di responsabilità. Non si tratta di imporre un modello unico, ma di favorire il miglioramento reciproco attraverso la condivisione di buone pratiche, lo scambio di studenti e insegnanti e l’investimento sulla qualità dell’insegnamento.
Dal programma “Istruzione e Formazione 2020” fino all’attuale “ET 2025” (“Education and Training 2025”), i focus sono chiari: inclusione ed equità, innovazione digitale e didattica, competenze chiave per la cittadinanza e il lavoro e formazione continua degli insegnanti. L’UE ha stabilito otto competenze chiave per l’apprendimento permanente, tra cui figura anche il senso di iniziativa e imprenditorialità a riprova di una visione dinamica della scuola, più vicina alla vita reale.
Internazionalizzazione dell’educazione: tra cooperazione e soft power
Nel mondo globalizzato, educare significa anche dialogare con altri sistemi culturali, aprirsi al confronto e uscire dalla logica del “muro” per entrare in quella del “ponte”. I programmi europei come Erasmus+ o e-Twinning non solo offrono esperienze di mobilità, ma diventano strumenti di soft power culturale. L’Europa non impone un modello, ma propone un’idea: quella di una cittadinanza europea consapevole, aperta e plurale.
In Germania, ad esempio, il tasso di partecipazione ai corsi di formazione continua è superiore al 60% (vs il 40% dell’Italia), sostenuto da una cultura del lifelong learning e da investimenti statali per adulti e piccole e medie imprese.
Mentre in Austria, l’iniziativa Initiative for Adult Education offre corsi gratuiti per adulti con un basso livello di istruzione con coaching individuale e gruppi di piccole dimensioni.
In Francia, infine, mentre si riconosce il valore della formazione permanente, si insiste maggiormente sull’accesso pubblico e sull’inclusione formativa già in età adulta.
Oppure, è possibile pensare al progetto DiscoverEU, grazie al quale i diciottenni di tutta Europa ricevono un pass ferroviario gratuito per viaggiare e scoprire le capitali europee. Non è solo turismo: è formazione identitaria, apprendimento informale e costruzione di legami.
L’internazionalizzazione, però, non è solo per gli studenti. Insegnanti, formatori ed educatori possono accedere a progetti di aggiornamento all’estero, corsi in lingua e scambi culturali. Un insegnante che torna da una scuola in Finlandia o in Portogallo non torna solo “più preparato”, ma anche più consapevole delle sfide comuni.
L’educazione europea come mezzo di integrazione culturale e sociale
Spostando il discorso sul piano sociologico e antropologico, l’educazione è stata spesso descritta come uno dei principali strumenti di cui le società dispongono per trasformare le proprie strutture culturali e sociali. Non a caso, in ambito europeo i programmi educativi transnazionali come Erasmus+, eTwinning o le azioni Jean Monnet vengono spesso presentati come veicoli di inclusione, coesione e apertura interculturale. Tuttavia, questo processo porta inevitabilmente con sé anche delle tensioni ben descritte nella letteratura specialistica.
Il sociologo francese Pierre Bourdieu ritiene che l’educazione possa in certi casi legittimare o addirittura ampliare le disuguaglianze attraverso una distribuzione ineguale di quello che lui chiama capitale culturale. In questa visione, il successo scolastico o accademico è solo in minima parte legato al merito individuale, mentre in realtà esso sarebbe il risultato dell’appartenenza a una determinata classe sociale che può permettersi di investire tempo e risorse nell’istruzione. Queste dinamiche, già esistenti da tempo a livello locale, rischierebbero pertanto di estendersi a livello globale con l’internazionalizzazione dell’educazione.
Arjun Appadurai, invece, ha spesso posto l’accento sul modo in cui persone, capitali, tecnologie e idee circolano al di là dei confini nazionali. Egli sottolinea come l’educazione sia capace di produrre ambienti in cui le identità culturali si ridefiniscono e si ibridano a vicenda. Tuttavia, questo processo non è mai lineare né privo di attriti perché, se l’integrazione fallisce, possono innescarsi processi di resistenza e opposizione alle altre culture. È questo uno dei motivi per cui le pratiche educative europee sono state spesso accusate – talvolta in modo polemico e strumentale – di essere vettori di un universalismo che ignora le specificità locali.
Le disuguaglianze educative: gap tra nazioni e all’interno delle società
D’altra parte, uno degli obiettivi dichiarati delle politiche educative dell’Unione Europea è l’intervento diretto per ridurre le disuguaglianze, sia tra gli Stati membri che all’interno di ciascuno di essi. Questo, inevitabilmente, comprime lo spazio per le specificità locali, che possono addirittura produrre o rafforzare nuove forme di ineguaglianza strutturale.
Da un lato, a livello interstatale le istituzioni europee puntano a rimuovere le profonde disparità nella qualità dell’offerta educativa, nell’accesso alle infrastrutture digitali, nella formazione degli insegnanti e nella disponibilità di fondi nazionali. Il divario tra il nord e il sud del nostro continente, così come tra l’ovest e l’est, si riflette infatti nel diverso grado di partecipazione ai programmi europei di mobilità. Gli studenti dei paesi economicamente più forti godono spesso di migliori opportunità per accedere a esperienze internazionali, rafforzando così il proprio capitale simbolico e le prospettive occupazionali.
Più difficile, invece, l’intervento a livello intrastatale, dove comunque le disuguaglianze sociali e culturali incidono profondamente sulla possibilità di partecipare attivamente all’internazionalizzazione. I programmi europei, infatti, pur essendo formalmente accessibili a tutti, presuppongono competenze che non sono equamente distribuite nella società e talvolta richiedono risorse che non tutti hanno. La partecipazione selettiva rischia quindi di produrre una sorta di élite europea dell’educazione che, attraverso le reti internazionali e i capitali acquisiti, rafforza il proprio vantaggio competitivo a scapito del resto della popolazione. È anche nel tentativo di porre un argine a quest’eventualità che le istituzioni europee prevedono misure compensative per studenti economicamente svantaggiati, come le borse Erasmus+.
L’influenza dell’educazione europea sul senso di cittadinanza europea
Oltre alla dimensione formativa, i programmi educativi europei svolgono una funzione fondamentale nella costruzione di una cittadinanza sovranazionale che rischia talvolta di entrare in conflitto con le identità nazionali.
Secondo Jürgen Habermas, la costruzione dell’identità europea non può fondarsi su valori etnici, ma deve anzi fondarsi su una forma di patriottismo costituzionale (in tedesco Verfassungspatriotismus), che si traduce nell’adesione a principi universali come la democrazia e i diritti umani. Nella prospettiva del filosofo tedesco, quindi, l’identità europea è un’identità primariamente civica, più che etnica. Studiosi come Gerard Delanty e Chris Rumford, invece, ritengono che l’identità europea si configuri come un’esperienza “a più livelli”, che si stratifica sull’appartenenza locale e nazionale anziché sostituirla. Nella loro visione la nuova identità europea può nascere sulla fusione tra l’elemento civico e quello etnico, che possono convivere senza che l’uno sovrasti l’altro.
Anche in questo caso, però, è diffusa la consapevolezza – o forse il timore – che la formazione di un’identità europea sia un processo lungo e tutt’altro che lineare. In molti contesti, esso si scontra con narrazioni euroscettiche e con la percezione di un’UE tecnocratica e distante. Ciò viene rafforzato da correnti politiche che mirano all’indebolimento proprio dei valori cardine dell’attuale idea di Europa: democrazia e diritti umani. Inoltre, un ruolo rilevante è giocato dall’esperienza vissuta dai singoli soggetti. Chi partecipa con successo a programmi internazionali tende a sviluppare un senso di appartenenza più intenso, mentre chi ne è escluso potrebbe nutrire sentimenti di indifferenza o di aperta ostilità.
Finanziamenti e iniziative europee per l’inclusività e la mobilità
Uno degli assi più forti dell’azione educativa europea è quello dei finanziamenti per inclusione e mobilità. A volte si pensa che i fondi europei siano riservati alle università o agli studenti eccellenti, ma si tratta di una percezione sbagliata. Il programma Erasmus+ 2021-2027, ad esempio, ha più che raddoppiato il budget rispetto al settennio precedente, arrivando a oltre 26 miliardi di euro. Una parte consistente è destinata a studenti con disabilità o BES, a giovani che vivono in aree rurali o a rischio esclusione e a scuole in territori svantaggiati o periferici.
In Italia progetti come Scuola oltre i confini o Erasmus for All hanno coinvolto centinaia di istituti comprensivi, portando anche gli alunni della primaria a scoprire nuove culture in modo sicuro e strutturato. In parallelo, il Fondo Sociale Europeo Plus (FSE+) finanzia azioni locali per combattere la dispersione scolastica, promuovere la parità di genere nell’accesso all’istruzione tecnica e sostenere l’apprendimento permanente.
Recovery and resilience facility (RRF) è uno strumento varato dall’Unione Europea nel 2020 per rispondere alla crisi pandemica. Insieme al Pact for skills, sono due iniziative complementari che incidono sulla struttura e la qualità dei sistemi educativi europei. In Italia il PNRR è la versione nazionale del RRF, promuove investimenti strategici pari a oltre 30 miliardi di euro orientati a potenziare l’orientamento scolastico e universitario e a colmare il divario educativo intergenerazionale attraverso misure di inclusione lifelong learning. Questo approccio multilivello (UE-Stati-regioni) richiede una governance efficace, sinergia istituzionale e forte capacità amministrativa nei contesti locali.
Formazione professionale e occupabilità grazie all’educazione europea tra autonomia e convergenza
Uno degli obiettivi centrali delle politiche europee è creare percorsi formativi che dialoghino con il mondo del lavoro, senza rinunciare alla qualità culturale dell’insegnamento. La formazione professionale non è più vista come “serie B”, ma come percorso dignitoso e strategico per l’occupabilità. La Commissione Europea ha lanciato già nel 2020 la European Skills Agenda che promuove la conoscenza di competenze digitali e verdi, l’aggiornamento continuo (upskilling e reskilling) e la cooperazione tra scuola, università e imprese.
Un esempio virtuoso italiano è il sistema degli ITS (Istituti Tecnologici Superiori), che offre percorsi biennali post-diploma con altissima percentuale di occupazione (oltre il 75% a un anno dal diploma, secondo INDIRE 2023).
La convergenza tra i diversi modelli nazionali avviene anche attraverso il Quadro Europeo delle Qualifiche (EQF), che consente di rendere leggibili e confrontabili i titoli di studio in tutta Europa.
PISA e i modelli globali di valutazione al passo con l’educazione europea
La valutazione è un tema sensibile ma essenziale. Dal 2000, l’OCSE pubblica i dati del programma PISA (Programme for International Student Assessment), che misura le competenze dei quindicenni in lettura, matematica e scienze. Nel report del 2022, l’Italia ha mostrato un calo generale nelle competenze matematiche. Queste, seppure buone performance in lettura al Nord, rimangono di criticità al Sud e un forte divario tra studenti con e senza background migratorio.
Ma il PISA va oltre la “classifica” e introduce un modello educativo basato sulle competenze trasversali, sulla capacità di problem solving e sull’autonomia del pensiero. I test PISA non sono quiz da manuale, ma situazioni reali come gestire un budget familiare, interpretare un grafico e comprendere un’informazione scientifica.
Sfide attuali: sovranità educativa e multilinguismo
L’internazionalizzazione dell’educazione si muove in un campo di tensione tra convergenza europea e autonomie nazionali. Se da un lato esistono standard comuni, come il Quadro europeo delle qualifiche o il sistema ECTS, dall’altro gli Stati rivendicano il diritto di determinare autonomamente contenuti e finalità educative. Ciò a dimostrazione di come il tema della sovranità nazionale possa toccare nervi scoperti anche in contesti ontologicamente votati a una dimensione internazionale, come quello dell’educazione.
Molti, infatti, ritengono che l’educazione europea agisca come uno strumento di soft power volto a consolidare la legittimità politica dell’Unione Europea attraverso la costruzione di un immaginario condiviso. Tuttavia, tale strategia può essere percepita come un’imposizione culturale, in particolare nei Paesi dove la sovranità educativa è considerata un elemento identitario centrale.
Questa contrapposizione è uno degli aspetti più evidenti della cosiddetta glottopolitica, un concetto illustrato in un articolo del 1986 dai sociolinguisti francesi Jean-Baptiste Marcellesi e Louis Guespin. Con questo termine, i due studiosi si riferiscono allo studio delle relazioni tra lingua e politica, ossia l’insieme di politiche linguistiche, decisioni, ideologie e pratiche sociali che riguardano il modo in cui una lingua viene regolamentata, insegnata e utilizzata nei contesti pubblici.
Nel caso europeo, la glottopolitica è da decenni ferma a un bivio: da un lato c’è la visione ideale, con la promozione del multilinguismo e di tutte le lingue parlate sul suolo europeo; dall’altro c’è la realtà concreta, con l’egemonia dell’inglese come lingua franca a livello accademico (e non solo), che solleva pesanti interrogativi sulla reale tutela della diversità linguistica.
Il multilinguismo, tra l’altro, è formalmente un pilastro dell’Unione, che però nella pratica è sempre più eroso dal dominio incontrastato dell’inglese e questo comporta rischi di standardizzazione culturale e perdita di diversità linguistica.
Conclusioni: l’educazione europea come ponte tra le culture o fattore di esclusione?
L’educazione può essere il più grande equalizzatore sociale, ma solo se ben progettata, altrimenti rischia di riprodurre le disuguaglianze esistenti. Come ricorda il sociologo Pierre Bourdieu, «chi non possiede il capitale culturale richiesto rischia di restare ai margini». Eppure, oggi più che mai, la scuola è l’unico spazio reale dove immaginare una società più equa, inclusiva e plurale.
In questo senso, le politiche educative europee non sono solo strumenti tecnici, ma visioni di un futuro migliore. L’Europa investe sull’educazione perché crede che solo una popolazione colta, aperta, formata e consapevole possa affrontare le sfide del domani: la transizione ecologica, la coesione sociale, la convivenza tra culture diverse.
In fondo, insegnare e imparare resta il gesto più radicale per costruire una società giusta, viva e in movimento.
Federica Cascio e Francesco Cositore per Questione Civile
Bibliografia
- Commissione Europea – Education & Training 2025
- Agenzia Nazionale Erasmus+ INDIRE
- Regolamento UE 2021/817 – Erasmus+
- Regolamento UE 2021/1057 – FSE Plus
- OCSE – PISA 2022
- ISTAT – Rapporto BES 2023
- INDIRE – Monitoraggio ITS 2023
- European Skills Agenda – Commissione UE
- ISTAT – Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile (BES)
- Appadurai, A. (1996). Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization. University of Minnesota Press.
- Bourdieu, P. (1986). The Forms of Capital. In J. Richardson (Ed.), Handbook of Theory and Research for the Sociology of Education (pp. 241-258). New York: Greenwood.
- Brooks, R., & Waters, J. (2011). Student Mobilities, Migration and the Internationalization of Higher Education. Palgrave Macmillan.
- Dale, R., & Robertson, S. (Eds.) (2009). Globalisation and Europeanisation in Education. Symposium Books.
- Delanty, G., & Rumford, C. (2005). Rethinking Europe: Social Theory and the Implications of Europeanization (1st ed.). Routledge.
- Marcellesi, J.B., & Guespin, L. (1986). Pour la glottopolitique. Langages, 21(83), 5–34.
- Lawn, M., & Grek, S. (2012). Europeanizing Education: Governing a New Policy Space. Symposium Books.
- Phillipson, R. (2003). English-Only Europe? Challenging Language Policy. Routledge.
