Il rapporto tra il sistema politico italiano e la monarchia
Lo Statuto Albertino, promulgato nel 1848, aveva giurisdizione limitatamente al Regno di Sardegna. Dopo l’Unità d’Italia, avvenuta ufficialmente il 17 marzo del 1861, la carta costituzionale monarchica fu estesa a tutta la penisola, ad eccezione del Lombardo-Veneto, dei territori del Nord Est ancora occupati dall’Impero Austro-Ungarico e dello Stato della Chiesa. La neonata Italia si classificava, sin da subito, come Stato-nazione di tipo monarchico, dunque, un sistema politico classico tipico del XIX secolo.
La transizione dal Regno di Sardegna al Regno d’Italia è stata lunga ed avvincente per l’epoca. Il sistema politico italiano di allora non si trattava di una monarchia assoluta, sulla scorta delle corone europee del secolo precedente, ma consisteva in una monarchia costituzionale. La carta era caratterizzata da una limitazione dei poteri del sovrano regnante, il riconoscimento di una serie di diritti ai cittadini, la divisione dei poteri sulla scorta del modello inglese.
Lo Statuto Albertino stabiliva la centralità del Parlamento italiano come organo detentore del potere legislativo ed il governo come organo detentore del potere esecutivo. La firma per la promulgazione delle leggi rimaneva in capo al Re d’Italia, così come la nomina del capo del governo.
Per comprendere il ritardo italiano nella costruzione dello Stato liberale rispetto ai Paesi anglofoni, è importante sottolineare che la monarchia italiana presentava delle differenze con quella inglese, in quanto mancavano degli elementi fondamentali nella struttura istituzionale.
Innanzitutto mancava l’indipendenza della magistratura, intesa come terzo potere dello Stato, indipendente dal potere esecutivo e legislativo. In altre parole, mancava dunque il principio di balance of powers tipico della tripartizione dei poteri dei sistemi costituzionali novecenteschi, che prevedono la rigida divisione dei tre poteri dello Stato come autonomi, indipendenti e sovrani nell’espletamento delle proprie funzioni.
La maggioranza e l’opposizione nella monarchia
Un altro elemento fondamentale che mancava era una chiara linea di demarcazione fra maggioranza ed opposizione in seno al regio Parlamento, incorniciata in una chiara divisione delle funzioni parlamentari tra le due parti, tant’è che la destra e la sinistra storica non sono mai stati realmente divise. Un terzo elemento era l’assenza dello strumento della fiducia del Parlamento al governo, dal momento che quest’ultimo era espressione della volontà del Re.
Per di più, l’oggetto di dibattimento, tipico delle monarchie costituzionali europee dell’Ottocento, non era né la forma dello Stato, né l’organizzazione e le credenze della società dell’epoca, bensì erano le politiche in senso stretto.
Invece, in Italia, il regio Parlamento era indebolito e limitato dal fenomeno delle maggioranze variabili influenzate continuamente dalla capacità personale del leader di turno di accentrare intorno a sé il consenso dei parlamentari. Come detto in precedenza, non era chiaro chi svolgesse il ruolo di maggioranza e chi di opposizione all’interno del regio Parlamento. Questo, perlomeno nella prima fase storica dello stato unitario, a differenza di quanto accadeva nel Regno Unito, dove Whigs (laburisti) e Tories (conservatori) erano separati da una linea di demarcazione netta sul piano politico e culturale.
La cultura liberale era molto debole nell’Italia dell’Ottocento. La principale variante ideologica del Liberalismo, fondata sui valori risorgimentali, non era largamente condivisa. Solo la componente piemontese della destra storica si riconosceva nel Liberalismo risorgimentale, mentre la sinistra storica antimonarchica, repubblicana e radicale, aveva una posizione marginale nella politica italiana e nel regio Parlamento.
Per di più i cattolici erano ancora esclusi dal patto costitutivo della nuova Nazione e non erano ancora organizzati in un partito, anzi, erano invitati da Papa Pio IX a non partecipare alla politica italiana, poi diventato un imperativo religioso, attraverso la promulgazione ufficiale del “Non expedit” il 10 settembre 1874.
Per quanto riguarda il sistema elettorale, si trattava di un sistema maggioritario, che, al contrario di quanto accadeva in Inghilterra, finiva col produrre un bipartitismo “apparente”, poiché le compagini della destra e della sinistra storiche rappresentavano sostanzialmente l’insieme dei maggiorenti locali interessati ai propri interessi privati o di rango, invece che agli affari pubblici dello Stato.
Il disinteresse per la cosa pubblica in senso stretto e l’incapacità di assumere sulle proprie spalle la responsabilità di costruire una classe dirigente unitaria e lungimirante nel Paese all’altezza delle sfide dell’epoca e che perseguisse l’interesse nazionale in senso puro del termine, ha generato un sistema politico non competitivo nel mondo civilizzato come quello italiano. Infatti, con il passare degli anni, l’assenza di una netta distinzione fra politiche di destra e di sinistra diede luogo al noto fenomeno del “trasformismo” di fine Ottocento.
Gli effetti del fascismo sul sistema politico italiano
L’avvento del Fascismo ha prodotto un’ulteriore regressione nella costruzione dello Stato liberale italiano. Il regime istituzionale voluto da Benito Mussolini poggiava sul corporativismo sociale, economico e politico. Dal punto di vista del rapporto tra istituzioni e cittadini, una delle caratteristiche principali è la negazione delle libertà individuali, che ha contraddistinto tutti i regimi autoritari e totalitari del Novecento.
Il modello corporativo fascista eliminava di fatto il confronto parlamentare ed il conflitto fra i diversi portatori di interessi presenti nel Regno d’Italia, anche se questo sistema non funzionò mai in maniera perfetta. Infatti, dall’istituzione del Consiglio corporativo centrale del 1934 all’entrata in guerra dell’Italia contro le potenze dell’Asse, 1940, il modello corporativo fascista produsse solo 30 contratti collettivi nazionali ed emanò solo 14 norme disciplinari sulle attività economiche.
Il debole corporativismo di stampo fascista portò alla nascita di numerosi enti e società pubbliche, che nel secondo dopoguerra ebbero un ruolo centrale nel sistema delle partecipazioni statali adottato in epoca primo-repubblicana. Il fascismo si poggiava sulla politicizzazione degli interessi corporativi, basati a loro volta su una fitta compenetrazione fra politica ed economia, elemento che, una volta caduto il regime, si sarebbe ritrovato anche nell’epoca repubblicana. In particolare, questo approccio si ritrova nel potere centrale assunto dalla Democrazia cristiana nella politica italiana e con la nascita di una forma di governo partitocentrico monolitico e di tipo spartitorio.
La DC, insieme ai suoi alleati pentapartitici, con la riforma organizzativa del Segretario Fanfani nel ’53, ha individuato nel modello corporativo e nel ruolo riconosciuto da esso ai corpi intermedi (perfettamente congruente con la Dottrina sociale della Chiesa) la struttura portante del rapporto tra politica ed economia, all’insegna delle logiche clientelari e di scambio.
Senza alcuna ombra di dubbio, questa è la principale devianza socio-istituzionale anti-moderna ed anti-liberale che l’Italia repubblicana ha ereditato dal passato, cristallizzando il Paese dal punto di vista della subcultura politica e, soprattutto, dando forza al meccanismo di controllo partitico della società (partitocrazia).
Il consociativismo: il sistema politico “primo-repubblicano”
Tra le forme di governo tipiche del Novecento troviamo il consociativismo. Questo si basa sulla rappresentanza politica di diversi gruppi socio-politici che costituiscono una comunità nazionale divisa da conflitti interni per ragioni storiche, etniche o religiose. Ma il consociativismo italiano è considerato dai politologi come “imperfetto”, in quanto incapace di garantire stabilità di governo ed evitare l’utilizzo dell’aggressività politica come strumento di lotta. In maniera impropria viene considerato un sinonimo di “Power sharing”.
In realtà è solo una delle forme attraverso cui può applicarsi la forma di governo basata sulla condivisione del potere.
Il consociativismo italiano si è rivelato un un sistema politico non competitivo e non dinamico ed ha contribuito in maniera decisiva alla nascita ed al radicamento della partitocrazia nella società e nelle istituzioni. I principali partiti di massa, la Democrazia Cristiana ed il Partito Comunista Italiano, il primo perennemente al governo, il secondo in perenne opposizione, rappresentano due subculture dalla natura sostanzialmente anticapitalista ed antiliberale, le quali hanno finito per influenzare la storia repubblicana italiana anche negli anni seguenti al declino della partitocrazia primo-repubblicana.
Le principali subculture politiche
Queste due subculture, ossia quella cattolica e quella social-comunista, se da un lato avevano in comune l’accettazione generale della democrazia e dei principi democratici, dall’altro non hanno mai avuto un rapporto sereno con il capitalismo moderno e con i principi tipici dello Stato Liberale.
Dal punto di vista di chi scrive, l’Italia non è mai stata, e non lo è ancora oggi, uno stato liberale puro e perfettamente formato.
L’ideologia politica che caratterizzava la Democrazia Cristiana, il cattolicesimo democratico, era il risultato di un’evoluzione culturale, o, se vogliamo, di un adattamento necessario. L’adesione ai principi democratici e dello Stato di Diritto erano precondizione per il rapporto privilegiato con gli Stati Uniti e per il coinvolgimento del Paese nel Patto del Nord-Atlantico. Se fossimo chiamati a stabilire una data rappresentativa di questa evoluzione culturale ed ideologica della DC, potremmo, e non a torto, indicare il viaggio di Alcide De Gasperi negli Stati Uniti, avvenuto il 4 gennaio del 1947, su invito di Harry Truman.
Una decisione non scontata, visti i precedenti rapporti del Partito popolare sturziano con le gerarchie ecclesiastiche, in quella critica fase politica che ha aperto il varco istituzionale al fascismo.
Per quanto concerne la cultura e l’ideologia social-comunista italiana del PCI, ancora alle dipendenze di Mosca, subì una sterzata “democratica” attraverso la celebre svolta di Salerno nell’aprile del 1944, traghettata da Palmiro Togliatti, ma su richiesta dello stesso Iosif Stalin, dopo un incontro che sarebbe avvenuto tra i due nella notte del 3 marzo 1944.
Si trattava di un’adesione alla democrazia ambigua e condizionata, di certo non dovuta ad una maturazione ideologica, ma ad una strategia politica messa in atto da Mosca, per ottenere l’inserimento del PCI nel governo italiano provvisorio come contromossa nello scacchiere europeo per evitare il controllo totale degli anglo-americani su un Paese geograficamente strategico e cruciale come l’Italia. L’ambiguità della svolta di Salerno era dovuta alla conservazione del modello di società socialista come principale riferimento socio-culturale e politico.
Il punto di contatto ideologico tra democristiani e social-comunisti
Queste due subculture però, quella cattolica e quella social-comunista, avevano due punti di contatto, seppur generici: l’adesione formale e forzata ai principi della democrazia rappresentativa e la comune avversione al capitalismo. A questa reagivano mettendo al centro della loro azione concezioni della politica figlie della loro stessa subcultura e visione ideale di società, rispettivamente le verità morali della dottrina sociale della chiesa, per quanto riguarda i cattolici, e le verità politico-ideologiche sacre ed irrinunciabili dell’utopia socialista, per quanto riguarda i social-comunisti.
Studiosi della Scienza Politica, tra cui il Professor Luciano M. Fasano, sostengono che dagli stessi punti di contatto delle due subculture sopra menzionate derivi la comune avversione del Partito Comunista Italiano e della Democrazia Cristiana all’idea di una politica finalizzata alla mera rappresentanza ed al governo della nazione. Infatti, le due grandi formazioni primo-repubblicane basavano tutta la loro struttura ideologica e politica sulla “pretesa di voler plasmare la società in base a generici valori palingenetici, la cui sostanziale impraticabilità apriva quindi la strada all’immobilismo o al compromesso al ribasso” (L. M. Fasano).
È proprio questa la cornice culturale e operativa del consociativismo italiano, definibile “occulto”, poiché celato all’interno dello scontro ideologico che DC e PCI portavano avanti al fine di conservare il rispettivo consenso di massa.
L’Italia tra partitocrazia e ingovernabilità: il ruolo della DC e del PCI
Dunque, la Democrazia Cristiana ed il Partito Comunista Italiano hanno rappresentato i due perni statici di un sistema politico stagnante, risultanti dalle incancrenite fratture tra Stato e Chiesa e tra Capitale e Lavoro. Lo sfondo culturale a tutto ciò era il lento processo di modernizzazione ed industrializzazione del Paese, con tutte le sue insite contraddizioni.
Infatti, sia la cultura democristiana che quella social-comunista, erano alimentate da altrettante sub-culture politiche: l’avversione alla modernità e l’avversione al capitalismo, confluite nell’avversione univoca al liberalismo, che, storicamente, ha sempre trovato poco spazio nel panorama politico italiano.
Queste due sub-culture erano il risultato della cornice valoriale delle due principali frange sociali: quella cattolica con il suo legame con il mondo agrario-tradizionale e quella social-comunista con il suo legame con i movimenti operai e contadini ispirati alla rivoluzione marxista. Ma, come accennato in precedenza, questi due mondi trovavano convergenza ideologica sull’avversione profonda al modello di società che si stava affermando con il processo di modernizzazione e liberalizzazione dell’Occidente europeo.
Questa avversione, però, ha registrato livelli differenti tra i rispettivi partiti di massa, poiché, se da una parte i social-comunisti hanno avuto campo libero sulle scelte ideologiche a causa della loro perenne opposizione al governo italiano ed ai forti legami politici ed economici con la Russia sovietica, dall’altra, la responsabilità di governo assunta dalla Democrazia Cristiana come core-party del Parlamento e della politica italiana, ha inevitabilmente affievolito con il tempo questo sentimento di avversione.
Ciò, anche e soprattutto alla luce dei profondi rapporti di cooperazione diplomatica, geopolitica e militare con i governi degli Stati Uniti d’America, principale potenza economica e militare dell’Occidente, considerata da molti analisti una delle democrazie liberali più avanzate al mondo.
Conclusioni
Ad ogni modo, il sistema politico italiano rimaneva confinato all’interno dello scontro ideologico fra questi due grandi partiti a integrazione di massa, che si esacerbava fino al punto di rendere questi stessi irresponsabili nei confronti del corretto esercizio dei rispettivi ruoli di maggioranza ed opposizione.
Da ciò scaturisce la strutturale ingovernabilità del Paese, tipica dei primi quarant’anni di vita repubblicana, nonché la tipica partitocrazia italiana, lontana anni luce dall’assetto democratico-liberale delle società moderne e industrializzate dell’Occidente.
Questi fenomeni degenerativi del nostro sistema politico non si fermano di certo ai primi quattro decenni di repubblica, ma continuano ad esistere ancora oggi con fattezze ed effetti diversi rispetto al passato.
Alessio Costanzo Fedele per Questione Civile
Bibliografia e sitografia
Nicolò Addario, Luciano M. Fasano, Il sistema politico italiano. Origini, evoluzione e struttura, Editori Laterza, 2019;
Giorgio Galli, I partiti politici italiani (1943-2004), Milano, Rizzoli, 2004;
Giovanni Sartori, Parties and Party Systems, Cambridge, Cambridge University Press, 1976;
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